L'ultimo metro di pellicola

L'esordio registico del catanese Elio Sofia è il nostalgico commiato dalla pellicola come supporto filmico, ma non certo come immaginario comune

L’ultimo metro di pellicola è l’opera d’esordio del giovane catanese Elio Sofia che, già attore e sceneggiatore, passa dietro la macchina da presa, puntando l’obiettivo sull’epocale rivoluzione di conversione dalla pellicola al digitale, avendo come luogo privilegiato d’indagine la sua stessa Catania, ove la Sicilia è stata l’ultima regione italiana ad aver portato a termine la digitalizzazione della filiera distributiva cinematografica. Sofia preordina una successione alternata di personaggi-testimonianze, immagini d’archivio e memorie private, tra cui spiccano quelle d’eccezione di Leo Gullotta e Daniele Ciprì, al fine di ripercorrere, con quanto più sentimento possibile, le tappe dell’iter di diffusione di una pellicola cinematografica, dalla produzione alla proiezione in sala, proprio ora che la smaterializzazione del supporto filmico semplifica e convoglia le diversificate competenze e responsabilità di un tempo, in un solo gesto leggero, in un viaggio senza più peso, senza più strade. A Sofia si deve senza dubbio il merito di aver intessuto una trama discorsiva, che porta a dialogare il tradizionale storico del cinema con il più inedito esperto di meccanica del cinema, nonché a dar voce a figure meno note e meno romantiche, quali i corrieri o gli ispezionatori di pellicole nei poli di smistamento locali.

Certo è il mito del proiezionista a farla da padrona, perché è sempre stato lui il demiurgo finale, il macchinatore nell’ombra, cui era affidato il delicato compito di innescare e custodire la magia del sogno nel buio in sala. E come mito vuole, da un grande potere deriva una grande responsabilità! Solo un proiezionista saprà maneggiare e dar conto con perizia e sensibilità dell’evoluzione della perforazione della pellicola (16, 35, 70 mm., cinemascope con obiettivi anamorfici, proiezioni a doppie bobine, dove la svista di un secondo può compromettere la resa stessa della visione totale) inestimabili segreti del mestiere.

Il film, pur eccedendo nel didascalico, trova in questa aneddotica forse il suo più grande valore, se si pensa ad esempio al pubblico dei giovanissimi, che in mancanza totale di specifiche discipline di studio sulle tecnologie e sulle leggi di mercato dell’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, potrebbero non venirne mai a capo, se non da adulti, potenziali addetti ai lavori. E se a livello personale “È una questione d’amore professionale per la pellicola”, come sentenzia uno dei protagonisti, a livello collettivo tutta la persistenza del tradizionale immaginario troverà, probabilmente, il migliore dei baluardi nella retorica della parte per il tutto, che vi soggiace. La pellicola incorporava già in sé l’idea complessiva di film, laddove il termine inglese film è acronimo che sta per Fabbrica Italiana Lamine Milano, l’azienda nostrana che nel 1920 produsse le prime emulsioni cinematografiche (striscia di poliestere o di triacetato di cellulosa) sino a divenire nel linguaggio parlato, sintesi di tutto il ciclo di vita, eterno presente, illusione ottica dell’immagine in movimento, simbiosi linguistica di supporto e testo.

È in definitiva una questione di contatto, corpo a corpo, che si teme verrà a mancare, lasciando un incolmabile vuoto. Non solo quello tattile, esclusivo, del proiezionista con la pizza di pellicola, ma anche quello empatico dello spettatore del nuovo millennio (allegoria nel film, cui presta il proprio corpo attoriale Tea Falco) che forte della consapevolezza di più di un secolo di teoria filmica, interagisce con la superficie bidimensionale che rimanda quell’ Arrivée d’un train a la Ciotad , che ai tempi seppe travolgere di paura. L’ultimo metro di pellicola è esplicitamente una operazione nostalgica, che trova il suo culmine nella sequenza delle pellicole al macero, e ciononostante, avrebbe potuto, volendo, non fossilizzarsi esclusivamente sul ripiegamento del passato e accennare, anche solo genericamente, ai vantaggi che il digitale porta innegabilmente con sé: facilità di accesso al prodotto e la possibilità di variare l’offerta per pubblici differenziati nella stessa giornata (cosa che può essere decisiva in bacini di utenza con poche strutture o con unico cinema). In conclusione, vogliamo augurarci allora, che l’interesse documentario sul tema, porti lo stesso regista o altri suoi colleghi a raccontarci più che la Storia tecnologica della settima arte, le storie di quei gestori, che sempre arrancando nella palude della crisi, hanno colto nello switch off più che uno stravolgimento tecnologico, uno slancio culturale, per rivalorizzare l’esperienza della fruizione in sala. Proseguire, nel solco primigenio di ciò che, analogico o digitale, è rimasto per oltre cent’anni inalterato, ovvero il buio avvvolgente, elettrico, eccitante; la grandezza delle immagini sullo schermo, che ci sovrastano e ci guidano attraverso la finzione verso più recondite verità, alla scoperta della “chimica delle emozioni, della fenomenologia dello smarrimento e della genealogia del piacere”.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 01/03/2016

Ultimi della categoria