Lucifer

Un'operazione vacua e presuntuosa che ci ricorda tutto quello che il cinema d'autore non dovrebbe essere

Soggetto e oggetto, primo piano e soggettiva. Lucifer di Gust Van den Berghe è la risultante esclusiva di questi due piani, il tentativo di far dialogare uno sguardo onnisciente che vede tutto e tutti e la rappresentazione dell’occhio stesso, perennemente aperto sul mondo. Terza parte di una trilogia ispirata alla cosmogonia dantesca, Lucifer alterna due uniche soluzioni espressive, entrambe estreme anche se in senso opposto. La prima ritorna per la maggior parte del film e nasce dal semplice espediente di un mascherino circolare, usato per delimitare l’immagine sullo schermo ad un perenne cerchio di dimensioni ridotte. La seconda è invece basata sull’uso del tondoscope, un particolare tipo di macchina da presa che permette di registrare e porre le immagini a 360° lungo una circonferenza piatta. Ritorna il cerchio dunque, ma se il mascherino limita l’immagine restituendo un’azione di spionaggio, il secondo ingloba l’intero oggetto della visione. Il primo è uno sguardo dall’alto in perenne soggettiva, il secondo è un primissimo piano assoluto. Il primo è la soggettiva di Dio e il secondo è il mondo intero che si riflette sulla superficie del suo occhio.

Affascinante e densa di discorsività filosofica e teologica, ma solo sulla carta, perché nell’atto pratico al costruzione estetica di Lucifer vale davvero pochissimo. Il film di Van den Berghe è infatti un’operazione tanto appariscente quanto vacua, adatta allo spettatore interessato maggiormente ad esporre un proprio pensiero piuttosto che a riflettere sul film stesso. Lucifer sembra lanciare suggestioni continue ma in realtà tutto ciò che può suscitare è un dialogo tra sordi, un dibattito tra un film pretenzioso e vuoto e uno spettatore lanciato in digressioni intellettuali partite da una base che non c’è. E’ un film che ammicca, che si piega al peggior stereotipo di cinema autoriale rappresentandone di fatto la morte. E non bastano le incursioni farsesche o i rimandi pasoliniani a salvare un’opera che si nutre consapevolmente della propria altezzosità, pontificando sulla trasfigurazione terrena e sulla linea di demarcazione tra sacro e profano. La storia di questo Lucifero, giunto in un purgatoriale paesino messicano per tormentarne gli abitanti, gira a vuoto, anche quando apre scenari potenzialmente interessanti come l’apertura di una stairway to heaven e il superamento della paura della morte attraverso l’accettazione della sua funzione di passaggio. E questo perché non può esserci alcun autentico senso del sacro in un’operazione così codificata e appariscente. L’occhio di Dio e il suo rapporto con il mondo è inerte, pretenzioso, configurando Lucifer come un banco di prova per l’occhio troppo intenzionato a trovare nel film qualcosa che di fatto non c’è.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/10/2014

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