Loving

Jeff Nichols firma un’opera intimista e senza grandi slanci sulla storia d’amore che mise fine alle leggi contro i matrimoni misti.

Basterebbe anche soltanto il primo splendido minuto di Loving per capire l’angolazione da cui Jeff Nichols ha scelto di raccontare la storia dell’omonima coppia che si oppose alle norme del Racial Integrity Act della Virginia alla fine degli anni Cinquanta. Un caso – quello dei Loving vs. Virginia – destinato a cambiare per sempre la storia dei diritti civili americani, famoso per aver portato la Corte Suprema ad abolire tutte le restrizioni giuridiche basate sulla discriminazione razziale che avevano criminalizzato i matrimoni misti in gran parte degli Stati Uniti fino al 1967. I primi piani di Mildred (Ruth Negga) e Richard (Joel Edgerton); lo strettissimo campo-controcampo che prima separa e poi ricongiunge i protagonisti, raccordandosi ai loro sorrisi liberatori; e infine il totale, che allarga il campo della ripresa al front porch della casa dove i due innamorati si danno dolcemente la mano. Lo sguardo che muove i passi iniziali della narrazione – ravvicinato, intimo, ridotto – fissa subito quelli che saranno i suoi confini, nel bene e nel male, per tutto il resto del film.

L’ingiustizia che costringe i Loving a lasciare i propri affetti e l’amata vita di campagna per il ghetto urbano di Washington, in ottemperanza ad un’assurda sentenza che concede loro di vivere impunemente congiunti soltanto fuori da uno Stato in cui vige ancora il segregazionismo delle anti-miscegeneation laws, è per Nichols un dramma essenzialmente privato, prima che un’inconcepibile limitazione universale dei diritti umani. È nella loro casa che lo sceriffo piomba nel cuore della notte per trascinarli dietro le sbarre, sono loro a dover tornare clandestinamente a Central Point per condividere con i parenti la gioia della nascita del primo figlio, sempre loro a dover sopportare anni di battaglie legali soltanto per veder riconosciuta la legittimità del loro amore. Interessato sin dai suoi primi lavori a portare avanti una riflessione sulla famiglia e sulle forze disgreganti a cui è sottoposta, il regista di Shotgun Stories, Take Shelter e Mud sceglie la via del ritratto e del biopic depurandolo da qualsivoglia deriva retorica e superomistica, un approccio che lui stesso definisce “pragmatico”.

Lo fa utilizzando come base di partenza un documentario del 2011 e rimestando tra i materiali d’archivio che ritraggono i Loving fuori da contesti straordinari, per lo più in casa con i tre figli e con gli avvocati della ACLU che li aiutarono a portare le loro istanze dinanzi alla più alta corte federale degli Stati Uniti. Ne emerge uno storytelling semplice e fedele alla realtà dei fatti, dal profilo basso, fatto di piccoli gesti, di momenti ordinari e di quotidiana resilienza, lontano, come lo furono effettivamente marito e moglie fuori dallo schermo, dalla magniloquenza delle lotte per i diritti civili, dall’attivismo politico e dai grandi riflettori.

Quando all’alba del verdetto finale uno degli avvocati della difesa gli chiede se ha qualcosa da dire ai giudici della Corte Suprema, Richard non ha niente da riferire se non che “ama la sua donna”. Nessuna rivendicazione roboante, nessun vittimismo: solo una semplice dichiarazione d’amore. E per Mildred, d’altro canto, “potrebbe anche esserci mezzo mondo” alla grande marcia su Washington di cui parlano alla tv, tanto lei avrebbe comunque da badare, più concretamente, a casa e bambini. Se il sogno di Martin Luther King nel celebre discorso pronunciato dinanzi alle centinaia di migliaia di manifestanti giunte al Lincoln Memorial era quello di vedere i propri figli crescere in una nazione nella quale non sarebbero stati giudicati per il colore della pelle, il sogno dei Loving è quello, molto più minuto, di poterli crescere in pace, insieme, dove scelgono di farlo. Senza per questo finire in galera. “Abbiamo pensato agli altri, certo, ma non lo stiamo facendo perché qualcuno prima o poi avrebbe dovuto farlo e volevamo essere noi quel qualcuno. Lo stiamo facendo per noi – perché vogliamo vivere qui”, spiegava Richard alla rivista Life nel 1966. Lo stesso magazine che aveva dedicato un intero servizio alla coppia della contea di Caroline intitolato efficacemente “The crime of being married” (una pagina che torna, arrotolata attorno ad un mattone minaccioso, in una scena del film) e corredato dagli scatti del fotografo Grey Villet (interpretato in un breve cameo dall’immancabile Michael Shannon). Ed è proprio in quelle foto che possiamo trovare con chiarezza ciò che deve aver colpito la sensibilità di Nichols: la de-stratificazione, la riduzione cioè agli elementi più elementari, di una storia d’amore che appare tanto più luminosa e archetipica quanto più riesce a rimanere ancorata ai suoi rituali più semplici senza farsi condizionare dalla Legge o dalla Storia.

Loving è allora un’opera sulla capacità dell’amore di trovare rifugio in se stesso e di tenersi stretta la propria fetta di felicità nonostante il fallimento delle istituzioni e le storture delle forme di organizzazione sociale, simboleggiati rispettivamente dall’evidente iniquità delle leggi schiaviste e dai pericoli della vita in città. Il limite del film, e in parte di tutte le opere di Nichols, sta proprio in questo ripiegamento che impedisce ogni apertura, ogni confronto con le tempeste che attendono fuori dall’uscio delle nostre barricate.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 15/03/2017

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