Love

A Cannes 2015 suscitò scalpore, polemiche e feroci stroncature, ma Il vero “scandalo” dell’ultimo film di Gaspar Noé è l’amore.

Gérard Lenne, anni fa, così riassumeva: «Il cinema, materializzando i fantasmi, abolisce ogni distinzione, colma il fossato tra immaginazione e rappresentazione, dunque tra erotismo e pornografia». Ed è probabile che il 3D di Love di Gaspar Noé, lo “scandalo” dai fiotti di sperma in tuffo verso lo spettatore al Festival di Cannes 2015, aggiunga nuovi tasselli alla questione, ulteriori domande sul piano linguistico, altro possibile senso a quei fantasmi. Ai corpi di quei fantasmi, portando dunque – c’è da credere – la riflessione oltre il raggio d’azione di uno zampillo di liquido seminale. Oppure potrebbe trattarsi anche solo di quel mero “esercizio di stile”, evergreen tra i diversi del vocabolario della critica, nonché una delle definizioni più bonarie applicate dai detrattori del cinema di Noé. O ancora, potrebbero essere vere entrambe le cose, coesistere pienamente, stringersi, collidere, perché le dicotomie appartengono spesso più a chi si esprime su quel cinema che non a chi lo fa. Ad ogni modo questa recensione non ha conosciuto il film in 3D: un limite, certamente – grande o piccolo magari un giorno anche qui lo sapremo –, che abbiamo però tentato di non elevare a impedimento.

Perché Love, prima di tutto (e anche, o soprattutto, alla fine), prima di ogni altro livello nascosto, di tutte le letture possibili, di essere scandalo o scandaloso, prima di essere l’“ultimo film di Gaspar Noè”, un porno, uno shock, immagine reale e irreale, film sincero e insincero, gioco gratuito e autoreferenziale, visione voyeuristica, prima di essere il set di un ripetersi frequentissimo di sesso orale e di penetrazioni in ogni luogo, dalla camera da letto a un cesso durante una festa, prima di essere insomma tutto quello che è ma che non è davvero, che potrebbe essere ma che infine non conta, è una storia d’amore, bellissima, che fa male. È una ricerca vana, è il volgare, dolcissimo e innocente diario intimo, viaggio a ritroso che nasce nei pensieri del protagonista, la mente e il cuore che in due ore e un quarto di film riavvolgono il tempo della relazione con quella che era stata la sua lei: non per riannodare fili impossibili e fare ordine tra quelle schegge scomposte e fragili della loro storia svoltasi tra intimità domestiche e passeggiate, droghe, discoteche e orge con sconosciuti, tra gioia e rabbia, parole e silenzi, godimento e solitudine; no, Murphy (Karl Glusman) lo fa per non morire, per salvarsi in cerca di Electra (Aomi Muyock), per salvarla, desiderare che sia viva ancora, dopo che ha fatto perdere le sue tracce e nessuno, neanche sua madre, sa dove sia e cosa possa esserle successo, temendo addirittura il suicidio.

Lui americano a Parigi, studente di cinema con ambizioni registiche, 2001: Odissea nello spazio il suo film preferito; lei francese, di una insicurezza sensuale, pittrice, forse entrambi senza abbastanza talento, chissà, ma non importa. Sognavano del bambino che avrebbero voluto, che avrebbero chiamato Gaspar. Un piccolo che poi nascerà, con quel nome, ma sarà il figlio di Murphy e Omi (Klara Kristin), la bionda diciassettenne nuova vicina di casa, frutto di un coito finito con la rottura del profilattico dopo che già c’era stata un’esperienza di sesso a tre con Electra. Che se ne andrà per sempre. Quel Love per la ragazza resterà lancinante, violento, ottusamente quanto ingenuamente primitivo, profondo. Un amore che desidera il ritorno, che ridisegna le immagini del loro essere stati insieme, figure e movimento, presenze di uno sguardo-spazio che è immagine diversamente ritornante (qui il nostro “limite” di cui sopra). La cronaca di un eros quotidiano sempre viziato dall’ossessione della perdita, del vuoto, della fine. Love è un film di paura, quella di Murphy ed Electra, quella che forse è il vero motivo della scelta 3D, la sua origine; è un film troppo vero e troppo finto insieme, necessariamente, una dicotomia che svanisce.

Alla fine di tutto, allora, dopo salive e umori, fremiti e torsioni, ciò che più manca, come potrebbe essere il respiro, è un abbraccio.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 29/02/2016

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