Loin des hommes

Loin des hommes è un'opera disciplinata e senza fronzoli, eppure priva di uno sguardo consapevole capace di sfruttare a dovere le potenzialità della storia.

Un encefalogramma piatto. Potremmo riassumere così il nono film passato in concorso al festival, il francese Loin des hommes di David Oelhoffen, ispirato da L’ospite di Albert Camus. Un’opera disciplinata e senza fronzoli, eppure priva di uno sguardo consapevole capace di sfruttare a dovere le tante potenzialità della storia, tra cui i magnifici scenari che fanno da sfondo alla vicenda. Siamo nel 1954 in Algeria durante la guerra d’indipendenza, ma sembra un western. Il regista rincorre le atmosfere del grande cinema della frontiera, il paesaggio roccioso e impervio dell’entroterra algerino, i cavalli e le colonie, le sparatorie fulminee, il viaggio come topos narrativo. Ma è come se gli mancasse un’anima, tutto apparentemente sembra funzionare, dalla colonna sonora di Nick Cave, ai due interpreti Viggo Mortensen e Reda Kateb, fino al plot che racconta di due uomini culturalmente diversi costretti a misurarsi con i piccoli/grandi sommovimenti della Storia. Eppure alla fine della proiezione si prova un senso di insoddisfazione dettato proprio dall’assenza di una regia, di un’idea di messa in scena che sappia non solo accompagnare le traiettorie dei personaggi ma anche farle vivere dolorosamente sullo schermo; non solo filmare bei paesaggi da contemplare ma anche perdersi nel territorio fin dentro le sue viscere; non solo limitarsi al “compitino” ma rischiare ad ogni inquadratura. E invece è sempre tutto incredibilmente prevedibile e corretto in questo film: a due campi lunghi segue un piano stretto sui corpi e così via, prima l’ambiente e poi i personaggi, lo stesso schema viene ripetuto per quasi tutta la durata senza che una scossa sopraggiunga. Persino le sparatorie sono risolte in modo sbrigativo, come se fossero un peso di cui liberarsi il prima possibile. Loin des hommes ci racconta il desiderio frustrato di un film che mentre sogna il western sa di non esserne all’altezza. Anziché trarre forza dai luoghi il regista si comporta come se ne fosse intimorito al punto da nascondersi dietro un linguaggio elementare, basico, stanco che lo sottrae a qualsiasi dialettica. Pensiamo inoltre alle tante sequenze letteralmente buttate via che potevano costituire snodi importanti, come ad esempio quella nel bordello, momento di condivisione dove si fortifica l’amicizia virile e che nel film si risolve in pochi minuti senza concedere il tempo di una pausa. Ecco, in fondo il limite maggiore del film sta nella sua struttura circolare che ha ben chiara la destinazione finale, ovvero la presa di coscienza dell’insegnante. Partiamo dalla scuola e lì torneremo. Non contano tanto le singole tappe quanto piuttosto il percorso nella sua interezza. Peccato che lungo il viaggio a poco a poco si perda qualsiasi interesse e alla fine non rimanga che un senso di vuoto molto simile ai paesaggi del film.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 31/08/2014

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