L'intrusa

Di Costanzo torna al racconto di finzione con il suo sguardo rigoroso, tra realtà e cinema impuro; qualcosa però viene a mancare, con una scrittura che arretra rispetto al passato.

Una questione di «“eroi” moderni, a mio avviso poco raccontati rispetto all’importanza sociale crescente e per le questioni che il loro agire solleva: sono coloro che, per convinzioni politiche, religiose, o semplicemente umanistiche, scelgono di dedicare la propria vita alle fasce più deboli e marginalizzate della società». Leonardo Di Costanzo descrive così le fondamenta fattuali e narrative del suo film – era alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2017 –, arrivato in sala poco dopo l’ottimo L’equilibrio di Vincenzo Marra (le parole sopracitate potremmo in effetti applicarle bene anche al prete interpretato da Mimmo Borrelli in quest’opera). E con L’intrusa, ancora una volta, dopo il bellissimo L’intervallo, Di Costanzo si mette sulle tracce di un possibile incontro tra la realtà e un cinema liberamente impuro, per quanto da dentro uno sguardo rigoroso e preciso sulle cose, in cui riorganizzare il dato e l’immaginario sociale.

Periferia napoletana: una struttura ricreativa, “la Masseria”, dedicata ai bambini, per tenerli lontani dalle insidie, le miserie e le brutture che, del loro contesto, del quotidiano, sono il marchio. Dopo le ore scolastiche, allora, ci sono una ciclofficina, un orto, pennelli e colori, creature da costruire, l’ingegno e il gioco, panini e succhi di frutta. Responsabile del centro, stimata dai suoi collaboratori e da molte famiglie del quartiere, è Giovanna (Raffaella Giordano). Viene dal nord, è corpo e lingua altri, lei, ma conosce ormai bene il posto in cui vive; l’intrusa invece è – anzi diventa –Maria (Valentina Vannino), con un neonato e la piccola Rita (Martina Abbate), a cui Giovanna ha dato aiuto e ospitalità in una casupola negli spazi della Masseria, per scoprire infine che in quei pochi metri quadri si nascondeva il marito della giovane donna (Carmine Paternoster, con un personaggio già incontrato ne L’intervallo), camorrista omicida che viene arrestato una mattina dalla polizia. Giovanna vorrebbe a questo punto cacciare Maria, dopo l’inganno subito e il pericolo creato a tutti, ma non ci riesce, qualcosa la trattiene mentre cerca di misurare il peso del male minore, la portata del gesto coerente con la sua esistenza. La madre e i suoi figli restano, circostanza che avrà delle conseguenze sulle scelte dei genitori degli altri bambini.

Ci sono non attori e un’artista teatrale (Raffaella Giordano è coreografa e danzatrice) al servizio del regista, a informare il racconto e il luogo/set. Ma a Di Costanzo non interessa il “cosa”, quanto il “come” dei personaggi e delle dinamiche che intercorrono tra loro, degli spazi che attraversano, quelli che li dividono, quelli che condividono (Giovanna e Maria sono spesso lontane, separate, i dialoghi e i contatti tra loro sono relativamente scarni: è una prossimità debole. Maria, la sua alterità, è nel dettaglio così come nel gesto, è lei che scruta, spia il mondo dalla sua piccola finestra, che si trucca per uscire e poi all’improvviso, velocemente, nervosamente si pulisce il viso).

Il regista mette in finzione, coadiuvato dai fidati Bruno Oliviero e Maurizio Braucci alla sceneggiatura, una politica della realtà mimetica ma non massimalista, ben sapendo che il tragico è dimensione implicita, che sovrasta i suoi personaggi e dunque non occorre determinarlo, mostrarlo, metterlo in scena. In questo Di Costanzo sa essere molto lucido, efficace, analitico. E non muta, infatti, né sentimento né sguardo, nel suo approccio critico all’esistente, qui, rispetto a L’intervallo o alla sua produzione documentaria, tuttavia non riesce a raggiungere quella sottrazione, quel lavorìo formale e drammaturgico di equilibrio che dava rilievo e toglieva peso alle figure dei due adolescenti (reclusi anche loro) nella sua precedente opera di fiction. L’intrusa sembra non possedere questa piena reciprocità, convincendo di più nello sguardo del regista su Maria piuttosto che in quello di Giovanna su di lei. Ed è forse per questo che la festa finale è il momento più riuscito (e libero) del film.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 02/10/2017

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