L'insulto

Dopo il controverso The Attack, Ziad Doueiri torna con un nuovo film dichiaratamente politico, questa volta sulle contraddizioni storiche, sociali e religiose del proprio paese.

Cinque anni dopo il controverso The Attack, censurato in gran parte dei paesi arabi con l’accusa di sostenere le posizioni israeliane sul conflitto israelo-palestinese, il libanese di nascita, ma americano di formazione, Ziad Doueiri torna con un nuovo film, L’insulto, dichiaratamente politico, questa volta sulle contraddizioni storiche, sociali e religiose del proprio paese.

L’intento ancora una volta sembra quello di voler sanare le ferite, sedare i conflitti, ricucire gli strappi. Per farlo Doueiri sceglie la via del film processuale - con tutto quel che ne consegue in termini di aderenza ai codici di genere e soprattutto di intenti simbolici – che diventa, strada facendo, una sorta di seduta di autocoscienza sulla Guerra civile che ha dilaniato il Libano dal 1975 al 1990.

Lo spunto da cui prende avvio la vicenda riguarda una banale discussione su una grondaia difettosa che vede coinvolti un cristiano maronita libanese e un capomastro palestinese. Discussione che innesca una lunga serie di insulti, provocazioni («Sharon avrebbe dovuto sterminarvi tutti») e improvvisi gesti violenti, fino ad approdare in tribunale. La posta in gioco, manco a dirlo, va ben al di là della disputa personale, e riguarda piuttosto le divisioni storiche tra cristiani libanesi e comunità palestinese, ciascuno con il proprio carico di traumi (nel film vengono evocati il massacro di Damur del 1976 e quello di Sabra e Shatila del 1982) e responsabilità.

Almeno secondo il regista, che in nome della pacificazione ricorre a tutta una serie di espedienti e semplificazioni che, seppur efficaci sul piano del racconto e del ritmo, privano il film di quella complessità necessaria per scavare davvero tra le pieghe della Storia. A tal proposito si veda la scelta di contrapporre tra gli avvocati un padre ed una figlia. Metafora fin troppo esplicita di un conflitto generazionale e soprattutto “familiare”, interno cioè al paese, in cui in ballo c’è la trasmissione e l’eredità della memoria storica nazionale. Il percorso che il film descrive è a conti fatti quello di un faticoso negoziato a colpi di testimonianze, materiali d’archivio, ribaltamento dei punti di vista, che giunga infine ad un terreno comune, ad una condivisione. Che non riguarda certo l’assunzione di questa o quella responsabilità particolare, ma che scaturisce piuttosto dal riconoscimento dell’altrui dolore. Perché, come dice l’avvocato difensore, non esistono gerarchie nella sofferenza

Che in tutto questo abbiano un ruolo determinante i personaggi femminili non è di certo un caso. A loro è affidato il compito da un lato di mediare, smussare, appianare i conflitti (le rispettive mogli) dall’altro quello di elaborare e sancire un esito processuale (sull’asse avvocatessa-giudice) che nell’inevitabile scelta tra i due contendenti, alla fine sembra comunque accontentare tutti. Come a voler rivendicare il fondamentale apporto del femminile in un verdetto che si voglia davvero condiviso e soprattutto sottratto ad un passato esclusivamente maschile.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 31/08/2017

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