L'inganno

Tra remake e rilettura personale, arriva in sala l'ultimo capitolo di una poetica originale e solidissima.

Fin dall’annuncio che Sofia Coppola avrebbe realizzato il remake di La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel, l’operazione è stata avvolta da polemiche di ogni sorta – più in generale da una netta polarizzazione delle opinioni – prima ancora che il film venisse visto allo scorso Festival di Cannes, dove è stato presentato nel Concorso Ufficiale. Non c’è dubbio che l’autrice si sia imbarcata in un progetto estremamente rischioso, dimostrando un notevole coraggio ed esponendosi a inevitabili atteggiamenti pregiudiziali, come accade ad ogni regista capace di dividere pubblico e critica in due tifoserie contrapposte. A questo va aggiunta la diffidenza (anche un po’ misogina, a dire il vero) da parte di alcuni osservatori che hanno visto Coppola quasi colpevole di voler rifare, da donna, un film simbolo di un’epoca e della carriera di un autore di culto come Don Siegel, il cui cinema ha sempre privilegiato la rappresentazione di eroi e antieroi maschili rispetto a quella dei personaggi femminili. Nella selva di pregiudizi che si possono avere su un film, quello secondo cui un remake rovinerebbe l’originale è forse uno dei più inconsistenti (non si capisce infatti per quale ragione un film dovrebbe danneggiare un’altro appartenente al passato e già storicizzato, piuttosto in caso di un confronto infelice andrebbe al massimo a esaltarlo). Senza contare il fatto che lo stesso film di Siegel è tratto da un romanzo (A Painted DevilThomas P. Cullinan, 1966), ragion per cui è possibile inquadrare l’opera di Coppola come una nuova trasposizione e non per forza (o, più precisamente, non solo) un remake.

Cercando di rimanere obiettivi e soprattutto di mettere il cinema davanti al tifo analizzando in profondità il lavoro fatto da Sofia Coppola, L’inganno è un film estremamente interessante sia in quanto opera a sé stante sia in quanto riscrittura di un altro testo cinematografico (la scelta di mantenere il titolo originale del film del 1971 è da questo punto di vista significativa). Il lavoro che l’autrice fa sul film di Siegel da una parte riprende alcune idee molto forti già in partenza (come il discorso sull’innocenza e la condizione di prigionia del soldato Jonathan) ma dall’altra risemantizza in maniera radicale il racconto inserendolo prepotentemente nella filmografia della regista, per quanto riguarda l’immaginario di riferimento, la poetica stilistica e la scrittura di alcuni personaggi.

Il film di Siegel si colloca pienamente nella stagione della New Hollywood, autodefinendosi attraverso uno stile estremamente libero fatto di continue infrazioni alle regole del montaggio classico e di un uso dello zoom costante. Soprattutto, l’opera del 1971 riesce a incarnare perfettamente il discorso sulla Storia tipico del cinema americano di quegli anni, in particolare attraverso la creazione di atmosfere southern gothic molto spiccate e grazie al personaggio della domestica di colore, che riporta i riflettori sulla questione della schiavitù rendendo il film molto più politico rispetto al suo rifacimento.

Sofia Coppola ribalta l’assunto del film di Don Siegel, trattenendo solo ciò che serve al suo discorso ed eliminando tutto ciò che invece ritiene non solo inutile ma anche nocivo a ciò che intende raccontare. La componente politica è quasi del tutto eliminata, salvo quando costituisce un veicolo adatto ai discorsi maggiormente esistenziali che interessano l’autrice. La figura divistica di Clint Eastwood viene sostituita con quella di Colin Farrell, portatore di un’idea di uomo più in sintonia con uno sguardo femminile (si pensi al rapporto con le donne di Callaghan), un corpo perfetto per esaltare un punto di vista che in questo caso è prima di tutto femmineo. Al centro della scena infatti non c’è più la sfortunata vicenda del soldato Jonathan, ma quella di un gruppo di donne che per anni ha condotto un certo tipo di vita e che all’improvviso si trova ad affrontare una situazione sconosciuta e destabilizzante dalla quale ognuna di loro uscirà profondamente cambiata.

La regista riscrive la storia all’interno del proprio immaginario, riportando il discorso sui temi a lei più cari come l’alienazione, il rapporto con l’altro sesso, la solitudine e il privilegio sociale. L’inganno per certi versi è la chiusura di un ciclo, il ritorno alle origini e a un immaginario cinematografico fondato grazie all’adattamento delle Vergini suicide di Eugenides, opera prima di Coppola nella quale l’autrice giovanissima si tuffa in quegli anni Settanta che hanno celebrato la carriera del padre per far nascere la propria all’insegna della messa in scena di donne recluse, impossibilitate a guardare davvero il mondo se non dal buco della serratura, e tenute sotto controllo da una società a impronta maschile e maschilista che le desidera e le oggettifica. L’imponente casa di Martha de L’inganno ha proprio questa funzione: è un recinto, una bolla dorata, il luogo della paralisi temporale in cui viene perseguito un modo di vivere che esiste al di fuori della vita reale, in cui vengono studiate lingue che non verranno mai parlate, curato un aspetto fisico di cui non poter mai far sfoggio e soprattutto viene costruita una visione del mondo fatta di un noi e un loro, dove i primi finiscono con il cancello della magione.

Esattamente come le sorelle Lisbon, le donne protagoniste del film sono le protagoniste della dialettica tra natura e cultura, una tensione che le vede abitanti di un edificio neoclassico completamente fuori dalla Storia, quasi una reliquia di un tempo scomparso; sono vittime di un’educazione rigida e severa in cui tutto ciò che non è permesso diventa automaticamente una tentazione, il simbolo di una soglia da varcare. Al di là del recinto simbolico che le contiene c’è la guerra, il mondo fuori, lo spazio dei non privilegiati, quello in cui l’oro è compromesso con il fango, quello del conflitto e della vita vera, un universo ignoto e per questo sempre più desiderato.

Della dimensione politica del film rimangono i suoni fuori campo dei cannoni, simbolo di una guerra alla quale non è possibile partecipare, ma anche di un reale che solo attraverso la figura del soldato John McBurney finisce per entrare nella gabbia dorata delle protagoniste e destabilizzarne l’esistenza. Il personaggio di Colin Farrell è una protesi di quel mondo, è l’alterità per antonomasia, la tentazione che scatena nelle protagoniste pulsioni per troppo tempo tenute nascoste e che come in una pentola a pressione iniziano ad esplodere. John è per loro una figura sconosciuta che al contempo le attrae e le spaventa, è la sfida ultima per donne che per troppo tempo sono rimaste poco più che bambine troppo cresciute e che in lui vedono il simbolo del passaggio all’età adulta, in quanto tale sede di un incontro/scontro con sesso e violenza.

Il lavoro di Sofia Coppola, nel ribaltare il punto di vista del film e fare di un remake un’opera estremamente personale è sia di tipo narrativo che di tipo estetico. Per quanto riguarda il primo piano, un ruolo privilegiato è rivestito dai personaggi femminili, le cui sfumature caratteriali vengono approfondite in tutte le loro contraddizioni.

Martha Farnsworth, interpretata in modo perfetto da Nicole Kidman, è un personaggio molto più ricco che nel film di Siegel, specie perché accanto alle caratteristiche originarie possiede una maggiore stratificazione caratteriale e soprattutto emotiva data dalla fusione con il personaggio della schiava di colore: è lei a prendersi cura del soldato, è lei a lavarlo ed è lei dunque la prima a essere sessualmente tentata da un corpo così forte ma al contempo fragile e indifeso. È però il personaggio di Edwina a rubare la scena a tutti gli altri, coadiuvato da una Kirsten Dunst strepitosa (come spesso le capita). Il suo è un dramma lacerante, quello di una donna di città immersa in una dimensione non sua, una donna colta alle prese con l’educazione di giovani e inesperte fanciulle che improvvisamente si trova oggetto dello sguardo e dell’attenzione maschile. Edwina non ha il potere di Martha ma neanche più la giovinezza e la carica erotica di Alicia (Elle Fanning), è una donna insicura della propria femminilità che sentitasi tradita nel profondo da un uomo al quale aveva affidato il suo bisogno d’amore reagisce in un modo estremo, prendendosi tutte le responsabilità di quel gesto.

Sofia Coppola intavola questo discorso adottando uno stile visivo antitetico a quello di Siegel, e grazie anche al fondamentale apporto del direttore della fotografia Philippe Le Sourd realizza una messa in scena dal carattere estremamente pittorico, dando al collegio governato da Martha una corporeità tangibile, in contrasto con la fluidità della vita al di fuori di quelle mura, dove la dinamicità della guerra e l’eterogeneità della foresta fanno da perfetto contraltare alla marmorea impenetrabilità della location al centro del racconto. La pulizia del montaggio va di pari passo con la geometricità delle inquadrature, volte a sottolineare il contrasto tra la perfezione di un mondo illusorio e l’entropia di un reale sconosciuto e maledetto con cui le protagoniste sono costrette a fare i conti. A suggellare una regia mai così rigorosa nei lavori precedenti dell’autrice vi è un’inquadratura finale estremamente simbolica, che mette la parola fine al racconto e al discorso della regista, concludendo gli archi di tutte le sue eroine senza reali condanne ma anche senza alcuna assoluzione.

L’inganno è forse il film più maturo di Sofia Coppola, che nell’affrontare una sfida così difficile decide di dividere l’opera in due parti: la prima, che è senza dubbio la più potente, è anche quella in cui l’autrice gioca più sul sicuro, ritornando ai temi a lei cari, riprendendo le Vergini suicide ma anche quel senso di reclusione insito in Marie Antoinette; la seconda, per quanto non priva di sbavature (lo scioglimento ad esempio poteva, forse, essere gestito con più misura e meno fretta) è però anche quella in cui Coppola osa di più, fondendo registri drammatici con quelli da commedia, che raggiungono il picco nel momento della cena finale, molto diversa rispetto a quella del film di Siegel.

Ancora una volta l’autrice di Lost in Translation si dimostra un’autrice di grande spessore che indipendentemente dal giudizio sui singoli film è sempre capace di far emergere se stessa e la sua poetica. Coppola ha ancora tanto da raccontare sul suo ruolo di figlia d’arte a Hollywood e sulla condizione ambivalente del suo privilegio, uno stato che ha non poco a che fare con la ricezione polarizzata della sua opera.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 22/09/2017

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