Legend

Helgeland porta con ironia il tema del doppio all'interno del gangster movie, di cui cerca di rievocare la classicità all'interno di equilibri comunque personali.

A quasi 100 anni dalla sua nascita (prendendo come riferimento il 1931 di Nemico pubblico e Piccolo Cesare, cui seguirà l’anno successivo Scarface), il gangster movie è arrivato ad essere un genere talmente codificato che ogni nuova incursione non può prescindere da una consapevolezza teorica della tradizione.

In tal senso Legend ci tiene a dimostrare in fretta di conoscere la lezione scorsesiana, alla quale guarda comunque da una prospettiva più statica, capace di flirtare con il pop ma anche di mantenersi sobriamente classica. Infatti al contrario del Black Mass di Scott Cooper il film di Brian Helgeland paga presto i suoi debiti con il passato, preferendo poi divergere in cerca di un equilibrio più personale, tra un’estetica classicista e una rilettura schizofrenica del mito all’insegna dell’ironia.

A permettere l’operazione sono i due soggetti di partenza, i fratelli gemelli Ron e Reginald Kray, che ci arrivano attraverso una doppia interpretazione di Tom Hardy e permettono di mettere a dialogo il tema del doppio con la figura del gangster.

Schizofrenico, paranoide, violento, Ron condivide con il ben più morigerato Reginald il controllo dell’East London, territorio dei Kray per tutti i Cinquanta e buona parte dei Sessanta. Assieme i due fratelli sembrano potersi bilanciare, tuttavia gli eccessi dell’uno cozzano costantemente con i limiti dell’altro, in un contrasto che evidenzia la naturale scissione della figura del gangster, da sempre diviso tra sete di potere/violenza e nostalgia di ritorno per una vita che possa dirsi normale. Tra i due Reginald è il fratello che più soffre la sua scelta di vita, non a caso sarà protagonista attivo di un omicidio solo alla fine del suo percorso criminale. Ron d’altra parte è il vero tema del film, elemento discordante che ricorda i personaggi di Joe Pesci per la brutalità e l’assenza di ogni equilibrio psicologico.

Omosessuale dichiarato, amante dei metodi da gangster e dell’aura mitica di cui si ammanta tale categoria, alla quale vuole a tutti i costi appartenere, Ron è lo scarto fuori contesto, fusione di incontrollabilità e ironia irresistibile, un mix che Hardy riesce a restituire con verve comica da manuale. Del resto è questa forte attenzione per i caratteri dei due gemelli a portare Legend lontano da un racconto di scalata criminale e degli eccessi di brutalità che spesso l’accompagnano. Come volesse rimanere fedele ad un’eleganza e una morigeratezza tutta britannica, Helgeland costruisce un film che dialoga col passato ma indulge nel racconto più intimo dei propri personaggi, un incontro tra opposti che viviseziona l’immaginario gangster all’interno di un’estetica sempre molto controllata ma mai museale. Ad evitare questo senso di ritirata nella formaldeide è sempre Ron, scheggia impazzita pronta a disertare ogni logica a fronte di un’irrazionalità egotica che ne mal nasconde le fragilità. Il legame tra i due fratelli infatti evita loro di andare in conflitto aperto, tuttavia per Reginald è come se Ron fosse una manifestazione concreta di tutti i suoi desideri più astratti, coacervo di pulsioni e fobie che trovano carne in un corpo goffo e grasso e una mente schizoide.

Purtroppo Legend non è esente da problemi, a partire dalla croce di troppo cinema gangster –l’incapacità di raccontare il femminile che ruota accanto ai protagonisti; uniche eccezioni Coppola, Scorsese e Carmen Soprano di David Chase. Allo stesso tempo la coesione del racconto sembra venire meno proprio verso la sua conclusione, da un colpo di scena molto pretenzioso cui segue un caracollare della storia verso una chiusa priva di climax (specie se pensiamo al titolo scelto per il film e a quello che dovrebbe comportare). Ma del resto è tutto Legend a muoversi al di sotto della superficie, lontanissimo dal ritmo musicale di Guy Ritchie e impegnato piuttosto a cercare una sua via britannica al gangster movie. L’operazione non riesce del tutto e porta ad un film valido ma depotenziato rispetto alle sue possibilità; tuttavia ad Helgeland bisogna rendere il merito di aver tentato di lavorare sulla tradizione senza volersi fermare all’omaggio cinefilo, e soprattutto di aver compreso all’interno dell’operazione l’importanza di Tom Hardy come corpo anzitutto comico.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 24/10/2015

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