Le origini del male

Un nuovo horror found footage che non aggiunge nulla di nuovo al genere

Nonostante le immagini che introducono Le origini del male alludano chiaramente ad un culto demoniaco, la pellicola di John Pogue, almeno nella prima mezz’ora, sembra virare in direzione di un cambiamento importante rispetto alle costanti a cui ci ha abituato il genere horror in tempi recenti. La passione di un giovane ragazzo, ancora “normalmente” confuso e incerto su quale sarà il suo futuro, vista la sua giovane età, lo porta ad imbattersi in un progetto di ricerca scientifica condotto dal professor Joseph Coupland e un paio di suoi brillanti studenti. Il ruolo di cronista ufficiale, affidato al giovane Brian, serve al regista come escamotage per inserire la pellicola nel filone dei found footage movies. Tuttavia, se di solito le riprese amatoriali fungono da mero elemento stilistico, qui la passione di Brian per la macchina da presa (e quindi per il cinema) sembra trasparire sin dalle prime battute del film. Ed è un accostamento che onestamente funziona, non appare forzato. Il fascino del cinema, ma anche l’opportunità di catturare la realtà (dato che qui siamo nell’ambito documentaristico), sono splendide attrazioni per gli occhi di un ambizioso osservatore.

Sam Claflin si sente a suo agio nel ruolo di Brian, risulta credibile, compito per niente semplice data l’importanza del personaggio, vero protagonista del film ma anche suo motore incessante e osservatore attivo. Molte delle sequenze le viviamo attraverso il suo personalissimo e “ricercato” punto di vista. Diventa infatti involontariamente fin troppo parte dell’“esperimento” del Dottor Coupland. La crescita del suo personaggio non è solo verticale. È vertiginosa! Tanto, troppo, fino a scadere in un prevedibile eccesso e in una banalità che ancora certo cinema horror non riesce ad evitare. Non manca nemmeno quel pizzico di erotismo, un classico stilema del genere, che convive comodamente con la presunta tensione che il film dovrebbe trasmettere (a onor del vero è più corretto dire che la tensione esiste finché il demone non si palesa); così come non manca il ricorso ad una bambina dal volto angelico e puro, che cela presenze oscure ed incontrollabili ma scatena anche tenerezza e attrazioni pericolose.

Giunti a questo punto, risulta impossibile non porsi la stessa domanda che Coupland rivolge a Brian nei minuti iniziali: siamo noi dei credenti? Sebbene sia una questione sollevata immediatamente (su questo verteva la stessa lezione che Coupland tiene in aula nella prima scena), è la più interessante dell’intero film perché ci riguarda direttamente. In quel momento Brian rappresenta tutti noi. Mentre lui cerca le parole più giuste, noi interroghiamo noi stessi. Il professore ci sta chiedendo se siamo pronti e soprattutto se siamo disposti a ritenere credibile quello che vedremo. Ma la vera domanda è: in cosa crediamo? Crediamo solo in quello che possiamo vedere, toccare o sentire? Crediamo solo in ciò che fa parte della nostra cultura e del nostro orizzonte, o possiamo trovare il coraggio di superare i nostri stessi limiti e di affrontare le nostre paure? Crederemo in quello che Brian vedrà con i suoi occhi? Neanche lui inizialmente sa a cosa credere, è troppo inesperto per dirlo, ma la sua curiosità lo trasporta in un’esperienza che lo renderà certamente più consapevole, al di là di quali potranno essere le conseguenze. È curioso notare come la sua acquisizione di consapevolezza all’interno del film sia accompagnata da un parallelo mutamento nelle convinzioni e nelle aspettative dello spettatore. Quello che sembra essere un affascinante viaggio nelle profondità e nelle anomalie della mente di Jane Harper precipita in poco credibili (per rimanere in tema) virtuosismi demoniaci e piroette letali che dissolvono tutto il nostro interesse. Emblematico, tuttavia, il confronto tra Brian e il professor Coupland, che si traduce in una costruttiva e crescente opposizione tra chi ha voglia di sapere e chi invece, nonostante tutta la sua esperienza, non riesce a distaccarsi dalle proprie ferree convinzioni né ad accettare opinioni contrastanti (anche se palesemente vicine alla verità), come a dire che l’esperienza non sempre è un bene se non viene presa per mano da una buona dose di elasticità mentale e di umiltà.

Non è un caso che si sia giunti a discorrere di tematiche così delicate e profonde, su cui molto ci sarebbe ancora da dilungarsi e da cui la pellicola di John Pogue non avrebbe dovuto allontanarsi, naufragando verso ostacoli ormai obsoleti e tediosi, che nulla offrono di nuovo ma, al contrario, tarpano le ali. Le basi per riemergere o andare in profondità, dipende dai punti di vista, sono state gettate: che si riparta da lì.

Autore: Patrizio Simonelli
Pubblicato il 08/08/2014

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