Le dernier coup de marteau

Il migliore tra i film francesi presenti in Concorso quest'anno, quello di Alix Delaporte è un dramma adolescenziale in cui la musica riveste un ruolo preponderante e la poesia è sempre in agguato

Il quarto film francese in Concorso ci porta a respirare le atmosfere migliori del cinema transalpino, quelle in cui lo sguardo cinematografico sposa in modo totalitario il racconto dell’adolescenza e aderisce ad essa senza compromessi, donandosi e mai negandosi. Il livello medio della folta selezione francese di quest’anno non è eccellente, tutt’altro, ma il film di Alix Delaporte, Le dernier coup de marteau, è una parziale eccezione a quello che finora è stato un catalogo del peggior cinema made in France, quello più smorto e prevedibile, dal melodramma pasticciato (3 Coeurs) al dramma bellico paludato (Loin des hommes) passando per la favoletta esile e dimenticabile (La rançon de la gloire). Il film della regista coglie il momento di passaggio dall’infanzia all’età adulta attraverso le vicende del giovane Victor, un quattordicenne che convive con la madre malata, l’innamoramento e il desiderio di sfondare come calciatore sul campo da gioco. La visione del film è la sua visione, i suoi occhi sono i nostri. Il rapporto è diretto, bruciante, senza tramite, privo di mediazioni. A strappare la sufficienza, nel film della Delaporte, è però soprattutto la poeticità che non è mai poetismo, la musicalità che oltre ad accompagnare le inquadrature e la loro armonia interna diventa elemento preponderante della vita del giovane protagonista, squarciando il cuore del film e calandosi al suo interno (e dentro il nostro) direttamene dalla porta principale.

Il padre di Victor, Samuel, è un direttore d’orchestra che il ragazzo non hai mai conosciuto. A Montpellier, città in cui il giovane risiede, i due s’incontrano in occasione dell’esecuzione di Samuel della sinfonia n. 6 di Mahler, o meglio si sfiorano. Perché il dialogo è una componente accessoria e secondaria, nel film della Delaporte. Una zavorra, il più del volte, un di più, un inutile corollario. A parlare per davvero sono soprattutto i volti, i silenzi, ciò che è indicibile e resta tra le righe. Il film non ha di sicuro la maturità espressiva per rendere al meglio questo fascino raro senza flirtare con l’assenza di ritmo e la catatonia priva di peso, però. E il risultato, anche se sincero e piuttosto vitale, è discontinuo. Rimane in compenso l’efficacia di fondo di un romanzo di formazione che unisce la delicatezza piena di umanità, con cui il cinema francese è solito guardare ai suoi figli più giovani e agli interpreti più inesperti della sua società, a quell’irreprensibilità sociale più aspra di certo cinema dalla vocazione e collocazione più mitteleuropea.

Immagine rimossa.

La sinfonia di Mahler è quasi un personaggio aggiunto, e ciò rappresenta un elemento non trascurabile d’interesse: la metafora che sta dietro il titolo non è pretestuosa ma si carica di denso in misura maggiore quanto più è vissuta sulla pelle e sugli occhi tristi e ingrigiti del protagonista. Se Mahler eliminò l’ultimo colpo di martello dalla sua creazione perché lo riteneva una prefigurazione negativa e piena di scomodi e tutt’altro che benauguranti fantasmi in merito a quello che sarebbe stato il suo futuro, nel film la martellata finale è quella che potrebbe arrivare da un momento all’altro nella vita del protagonista ma che di fatto non sopraggiunge mai, sostituita dalla dolcezza della speranza, da un’apertura verso il sole che è non mai stucchevolezza retorica ma autentico conforto.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 04/09/2014

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