Lazzaro Felice

Mescolando fiaba e poesia, Alice Rohrwacher continua nella ricerca delle meraviglie, trovando nel miracolo della bontà un’ideale forma di resistenza alla brutalità.

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Cos’è che lega tra loro, come in un mescolarsi di limpide acque sorgive, fiaba e poesia, queste due forme dell’infinito che nel cinema ormai riconoscibilissimo di Alice Rohrwacher finiscono per riempire tempi e spazi del suo narrare audiovisivo? E che tornano, come rilevato dalla gran parte dei critici chiamati a scriverne, in Lazzaro Felice, sua ultima opera premiata, così come era già avvenuto con Le Meraviglie, a Cannes?

Sono, per dirla col titolo del suo film precedente, appunto, le meraviglie, epifanie di segreti che abbiamo dimenticato, interruzioni dell’arida regolarità di un quotidiano che occhi stanchi non riescono più a far respirare, sacche magiche di resistenza dell’anima, di misteri antichi. Perché per il poeta la poesia non è che apparizione e rivelazione del meraviglioso, fiaba per sua stessa natura. Tutto ciò che è poetico dev’essere necessariamente fiabesco e la fiaba, rifletteva già qualche secolo fa Novalis, non è che “il canone della poesia”.

E se nel suo secondo film tutto questo era nel fischio di un bambino senza più parole, nell’emersione di un’ape dalla bocca di una fanciulla, nel mistero dei favi, dei melari e degli smielatori, delle disopercolature e delle cristallizzazioni, degli Etruschi, di grotte ed isole, nello sbraitare d’un padre in mutande contro i cacciatori, in questo Lazzaro Felice è nel “miracolo dimenticato della bontà” (parole della stessa Rohrwacher), nella dolce santità del suo protagonista e dei suoi occhi, nelle immaginette sacre nascoste sotto i letti, nella forza callosa, ispessita, di contadini che parlano la lingua del vento, nella resurrezione, nella musica di un organo che fugge via da una chiesa, per trovare, fuori da quelle mura, orecchie nuove, ancora aperte al suono della carità.

Fiaba e poesia sono gli ingredienti, sinergici e complementari, di un unico antidoto alla disumanità, allo scientismo, alla tecnocrazia, a tutto ciò che tende a spogliare il cosmo dei propri enigmi, lo spirito della grazia, la natura della sacralità, gli uomini della bontà. Sono nobili forme di (r)esistenza alla irreggimentazione, alla coscrizione, all’automazione.

Si prenda Le Meraviglie, ad esempio. Una famiglia di apicoltori sopporta con dignità le sferzate di una trasformazione imposta, coatta e innaturale, l’imposizione di asettiche regole di sicurezza e igiene che snaturerebbe l’artigianalità, e quindi il senso stesso, l’identità profonda, della loro arte produttiva. Che è il risultato operativo di un lavoro corale, di una fatica famigliare, di tradizioni, riti e ruoli ben precisi, di una chimica non replicabile in laboratorio.

Gli stessi elementi che poi ritroviamo in Lazzaro Felice, nella comunità contadina ingannata dalla marchesa De Luna, regina della sigarette, della capitalizzazione, dello sfruttamento e della mercificazione.

Resistono gli apicoltori, resistono i contadini, inevitabilmente trasformati in emarginati urbani dalla presunta misericordia di un welfare capace di misurare la povertà solo in termini economici e non più umani, sociali. Il loro è un tentativo disperato, ma mai rassegnato, di resistere alle invasioni barbariche del turismo di massa, del consumo, persino della legge. Di ri-poetizzare l’esistenza. È la resistenza della pietra agli intonaci e alle pitture lavabili, della ricotta del pastore a quella del casaro-imprenditore, della bontà ingenua delle genti sfruttate alla furbizia degli sfruttatori, della poesia e della fiaba alle mortificazioni di narrazioni calcolate, imprigionate in schemi e convenzioni.

Certo se questa anarchia, come avviene in Lazzaro Felice, si traduce anche sul piano linguistico, si corre il rischio di allentare eccessivamente un controllo che avrebbe forse giovato, di aggiungere lì dove sarebbe stato meglio sottrarre. Se infatti nell’opera precedente, il racconto si teneva ben saldo sulla famiglia di apicoltori, in particolare su Gelsomina, in Lazzaro, che è operazione di sicuro più ambiziosa, l’esposizione si fa più sbilenca, erratica, irrisolta, le allegorie – soprattutto quella del lupo protettore – più stridenti, marcate, avulse.

Eppure in questa sua irregolarità da fiaba della tradizione orale, sfilacciata e sghemba, il film mostra tutto il suo profondo coraggio. Il suo valore sta nel suo sguardo inclusivo e partecipe, sempre vicino all’innocenza dei suoi personaggi, minacciati e vessati dalla rapacità del mondo. E pare di sentirli i Winspeare, i Carpignano, a ricordarci quanto questo sia davvero importante.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 18/06/2018

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