Laavor et Hakir (Through the Wall)

Burshtein conferma qui la già dimostrata capacità di proporre di sponda un racconto critico e bilanciato di quella che è la comunità in cui lei stessa vive.

La regista israeliana Rama Burshtein torna a Lido quattro anni dopo aver presentato in concorso la sua opera prima, Fill the void (distribuito in Italia nel 2013 con il titolo La sposa promessa). Così come nel film precedente, anche in Through the wall – stavolta collocato nella sezione Orizzonti – Burshtein decide di raccontare la comunità ebraica ortodossa charedim di Gerusalemme attraverso i tormenti di una donna di tradizione chassidica. Se, però, in Fill the void la giovane protagonista Shira veniva posta di fronte al dilemma se sposare o meno l’uomo già promesso alla sorella appena scomparsa, in Through the wall la trentaduenne osservante Michal desidera fervidamente il matrimonio, ma non riesce a trovare marito. In realtà, all’inizio del film un marito promesso ce l’avrebbe anche, l’ebreo ortodosso Gidi, che ha però deciso di rivelarle, a tre settimane dal matrimonio, di non amarla più. A questo punto Michal non si perde d’animo, determinata comunque a non annullare le nozze: la data della celebrazione c’è, il rabbino è stato preavvertito, così come la sala per le cerimonia prenotata e i duecento ospiti già invitati. Manca solo lo sposo, che Michal inizia a cercare, con l’aiuto delle amiche, in un viaggio contro il tempo.

La ricerca del marito, però, si rivela subito una metaforica analisi interiore di una fede sempre più vacillante. Non è tanto un uomo, quello che sta cercando Michal, ma una manifestazione della presenza divina: «Ho la sala, ho il vestito, ho la casa. Al marito ci penserà Dio!», ripete alla madre e alle amiche, manifestando una serenità iniziale che lo scorrere del tempo metterà a dura prova. Quando Michal chiede ossessivamente alle amiche se almeno loro credono che lei possa trovare marito entro la data prestabilita, in realtà è come se stesse interrogando se stessa sulla propria fede. Alla protagonista, infatti, non basta trovare un uomo qualsiasi che voglia sposarla. In venti giorni ne incontra molti, ma nessuno si rivela adatto fino in fondo. Come confessa alla donna che, nella scena iniziale, le premonisce il matrimonio tramite uno strano rito effettuato con il sangue di un pesce, lei non sta cercando un marito in quanto tale, ma l’amore prima di tutto in se stessa, e una serenità interiore che, in quel momento, la darebbe soltanto avere una persona accanto.

Ciò che Michal vuole superare è proprio quel muro che la divide dalla felicità, quelle regole religiose così ferree che la allontanano dall’autenticità della sua fede. Le contraddizioni che la accompagnano nella sua ricerca – la sicurezza di trovare un uomo in venti giorni assieme alla sua continua insoddisfazione di fronte alle persone che incontra – sono le stesse incoerenze che la distanziano dalla comunità cui appartiene. Anche per questo, manifesta tutto il suo fastidio di fronte a uomini ultra-ortodossi che le chiedono di sposarla, ma non possono guardarla nemmeno negli occhi, almeno fino al matrimonio. Allo stesso modo, sembra cadere nelle tentazioni del principe azzurro Yossi, un affascinante cantante israeliano – che non indossa nemmeno la kippah –, che la avvicina casualmente in occasione del suo pellegrinaggio alla tomba del Rebbe Nachman di Breslov (famoso rabbino di origine ucraina che rinnovò il movimento chassidico combinando i segreti della Qabalah con lo studio della Torah). Il muro che la separa da Yossi è una vera e propria parete che, all’interno del luogo di preghiera, divide i maschi dalle femmine. È proprio attraverso questo muro che Yossi sente Michal che piange di fronte alla tomba del rabbino, mentre confessa a se stessa di sentirsi una «bugiarda» e di non «sentire più niente». Questo è probabilmente il momento più basso della fede di Michal, rivitalizzata però nell’animo da quell’incontro così eccentrico, casuale e dagli esiti incerti.

Utilizzando con estrema disinvoltura un registro narrativo più leggero rispetto al suo film precedente, Burshtein conferma qui la già dimostrata capacità di proporre di sponda un racconto critico e bilanciato di quella che è la comunità in cui lei stessa vive, dove il giudizio e l’adozione perentoria di un solo punto di vista lasciano spazio all’interpretazione e all’equilibrio. Scegliendo i toni della commedia, la regista israeliana si distanzia così dalle scelte estetiche e fotografiche, decisamente più autoriali, che avevano caratterizzato Fill the void. Nonostante questo, la delicatezza dei primi due atti di Through the wall viene adeguatamente soppesata da un finale onirico ed emotivo, introdotto dalla splendida sequenza nella macchina, girato interamente in primi e primissimi piani. Quasi a volerci dimostrare che l’unico modo per poter oltrepassare quel muro è, probabilmente, iniziare a guardare dentro noi stessi.

Autore: Damiano Garofalo
Pubblicato il 01/09/2016

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