La Villa

Programmatico ed eccessivamente metaforico, l’ultimo film di Robert Guédiguian riflette sulla morte degli ideali in un paese, la Francia, cambiato troppo in fretta.

Robert Guédiguian aggiunge un altro tassello a una filmografia da sempre interessata al concetto di comune, alla fine degli ideali rivoluzionari dissolti in un mondo che non si riconosce più.

Ne La Villa utilizza i suoi attori di sempre, li raduna in una baia vicino Marsiglia per intelaiare un amaro racconto di crisi. Che è una crisi familiare in cui si riflette, programmaticamente, la crisi nazionale. È la Francia dei padri e dei figli, della fratellanza di ieri e della chiusura di oggi. Uno scontro generazionale in cui lasciare trasparire, ancora una volta, il tramonto degli idoli e delle utopie.

È proprio questo il punto: ogni figura in Guédiguian, per quanto interessante, si riduce a pura metafora, slittamento in odore di didascalia. Lo stato vegetale in cui precipita il personaggio del padre fa riferimento alla Francia assopita di oggi, che deve risvegliarsi per riscoprire i suoi veri ideali. Deve agire. Così come la figura di una madre che perde la figlia e riscopre gioia e maternità nella cura di tre bambini arabi appena sbarcati con un gommone. Altro ripetuto invito all’azione, all’apertura, alla riscoperta dei valori basilari della nazione. Intanto due anziani preferiscono suicidarsi insieme, mano per mano, come atto di rivolta e ultimo gesto d’amore: la loro terra è ormai irriconoscibile, il loro tempo è finito. Un tramonto terminale, un bigliettino per poi morire felici. Guédiguian, infatti, sa bene che quella Francia non esiste più.

Non si può certo accusarlo di furbizia, perché il suo sguardo è sincero e l’amore che prova per i suoi attori-personaggi è lampante. Eppure c’è qualcosa di troppo stanco e senile in tutta quest’operazione: tutto è scritto, tutto è detto, non c’è mistero, non c’è libertà, non c’è vera vita, al di fuori del testo rigoroso a cui attenersi. Quasi un teatro filmato con cui veicolare messaggi ben precisi. Quest’idea di un cinema imbalsamato, immediatamente significante, finisce per consegnare un pacchetto già pronto allo spettatore. Finisce per farci dimenticare alla fine la straordinaria umanità dei personaggi. Ne risentono il pensiero, l’emozione, la potenza stessa di un paesaggio che pare un eterno, bell’addormentato. Certo, sarebbe cinico non emozionarsi di fronte ad alcune sequenze, come il toccante video che manda in cortocircuito lo spettatore stesso: ci riferiamo alle riprese amatoriali degli attori-protagonisti sulla stessa baia tanti anni prima, quando erano giovani e felici, ai tempi della rivoluzione. Ma al di fuori di questi lampi, il film sembra procedere in maniera davvero meccanica.

Il problema è che risolvere l’amarezza del presente, restituire dignità a un paese e a una famiglia, attraverso l’espediente dei nuovi figli, i migranti, risulta in fondo alquanto forzato. Perché è proprio qui che il film perde qualcosa: diventa in tutto e per tutto un oggetto filmico chiuso, manovrato, strutturalmente artefatto. E, solo una volta, davvero di cattivo gusto: ci riferiamo al flashback della morte della bambina, pleonastico e in fondo inutile ai fini drammaturgici. Il resto si accende e si spegne, lasciando solo un vago ricordo e l’idea di aver assistito a un film dove qualsiasi interazione, qualsiasi lavoro spettatoriale, viene completamente (e consapevolmente) negato.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 03/09/2017

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