La teoria svedese dell'amore

Nascita e declino della Svezia futuribile degli anni '70 nell'ultima ambiziosa opera di Erik Gandini

La teoria svedese dell’amore... e sue derive, ovvero la spicciola, ma sempre valida teoria degli opposti che si attraggono, perchè la declinazione sociale dell’amore resta una questione di perpetua negoziazione di compromesso tra le parti (e la sorte, o provvidenza, che dir si voglia). Zygmunt Bauman (che fa capolino nel film) docet. Così si dipana l’ultima ambiziosa opera di Erik Gandini, regista italo -svedese, noto all’attenzione pubblica soprattutto per il precedente Videocracy – Basta apparire del 2009.

Nel macrocosmo qui esposto, le parti in gioco sono da un lato il modello di uomini/donne auto(no)mi che hanno piegato al proprio servizio le politiche di sviluppo, dall’altro uomini/donne vittime di forze egemoniche nello scacchiere geopolitico. I più consapevoli di sè tra i primi negozieranno la propria morale (im)perfezione nel ritorno all’ancestrale tribalità; i più coraggiosi e senza dubbio fortunati tra i secondi, scommetteranno sull’El Dorado del diritto democratico internazionale, sulla massima caposaldo d’accoglienza, applicata e non strumentalizzata, "sub lege libertas". Il film è una semidichiarata operazione di confronto paradossale tra utopie di socialità agli antipodi, in primis la Svezia (che sempre all’apice delle buone pratiche di realizzazione positiva dell’individuo - genitori single, parità lavorativa ed economica di genere - finisce per scontare quest’avanguardia in termini di desensibilizzazione ) a seguire l’Africa terzomondista (dove le condizioni di miseria più nera, sembrano riscattate dal calore comunitario e dalla memoria collettiva). L’autore cerca di risalire al bandolo della matassa di temi che hanno già ispirato l’immaginario cinematografico, sovente distopico (The Lobster di Yorgos Lanthimos, sull’obbligo della procreazione come regime di governo esistenziale; Still Life di Umberto Pasolini, sull’obbligo civile di conferire degna sepoltura al corpo e giusta destinazione ai beni patrimoniali; Il piano di Maggie di Rebecca Miller, sulla pratica di fecondazione a domicilio con spedizione del seme a mezzo posta).

Tuttavia, come avvenne per Videocracy, ciò che resta sotto la patina della narrazione sottilmente ironica di contrasto tra la voice over onnisciente e le immagini d’archivio storico-statistico miste a fiction e repertorio, è pura verità accademica: la piramide dei bisogni di Maslow, che ha alla base la sopravvivenza e al vertice l’autorealizzazione (l’eccellenza) personale, attraverso vari gradi di soddisfazione di sé. A Gandini si deve però il merito di aver posto l’accento sui confini labilissimi in cui il valore dell’indipendenza sconfina nella deriva della più inconcepibile solitudine ( morire soli, nella propria autonomia, senza destare per mesi nessun interesse in vicini e parenti lontani) così come il valore della sicurezza sconfina nella deriva dell’infelicità (l’ "anche i ricchi piangono!"). Ma l’equilibrio tra le estremizzazioni esiste e il film lo rintraccia e mostra, pur sollevandovi intorno un certo polverone di perplessità sulla sua universale vivibilità. Gli uomini, nel corpo e nello spirito, sono esseri migranti, pro-fughi per salvare la vita, non solo dall’ eccidio di bombe di guerriglia, ma anche dall’inaridirsi dei sentimenti, dal suicidio. Ed è la ragionevolezza, l’intelligenza di adattamento, la flessibilità alle condizioni che all’inizio si presentano rigide perché inedite, a consentire la sopravvivenza dell’essere umano, nella sua esclusiva cifra umana. Ecco che a mostrare i primi volti sorridenti, umani, sono gli stranieri, giunti in Svezia dal Medio Oriente martoriato, che apprendono la lingua e il sistema di valori che ora dovranno adottare nella sfida di non "snaturarsi" e snaturare le loro seconde generazioni; oppure gli abbracci, davvero di una tenerezza disarmante, tra il medico svedese "naturalizzatosi" in Africa e i suoi pazienti miracolati dalla sua genialità chirurgica, pragmatica, che ha mutato la necessità in virtù, in gratificazione, felicità, che Bauman ci ricorda consiste nel superare sfide con le proprie forze e non certo nel mero vivere nel lusso. Ma la questione iniziale e finale, che è una spirale intellettuale, resta l’indipendenza, dagli altri certo (il maschilismo e patriarcato delle mogli dai mariti, degli anziani dai figli, delle categorie deboli dallo Stato) ma non da meno dall’altruismo interessato, dal tornaconto vanaglorioso, dal ricatto morale. Il manifesto svedese degli anni ’70, incipit del film, inneggiava e vagheggiava una rete relazionale svincolata da ogni sorta di debito, che avesse l’amore come motore e unico scopo; un imperativo categorico che antropologicamente continua a cozzare con quell’ardua scelta di responsabilità, che ci vorrebbe tutti santi, anziché troppo umani.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 13/03/2017

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