La pazza gioia

Virzì si lancia alla ricerca delle briciole di felicità con un film molto applaudito alla Quinzaine.

La pazza gioia. Ma, perché no, anche la gioiosa pazzia. Meglio ancora la pazzia e la gioia, per dirla con il lampante sdoppiamento dell’endiadi. Non cercano altro, Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti) che qualche momento di evasione, l’ebrezza (ebbro era colui che si inebriava fino ad entrare in comunione con gli dei), l’estasi dell’abbandono totale alla vita. “Sfuggire del tutto ad ogni ancora e a ogni presa. Andare liberi, amare liberi, precipitarsi incauti e pericolosi. Corteggiare la distruzione col sarcasmo e con l’invito. Ascendere, saltare verso i cieli dell’amore che mi indichi, salire sin lassù con la mia Anima inebriata. Perdermi, se così deve essere. Nutrire il resto della mia vita con un’ora di pienezza e libertà\\ con un’ora breve di pazzia e di gioia”, suggeriva, con la precisa bellezza della poesia, il grande Walt Whitman, in un componimento perfetto per l’occasione.

Evadono, per così dire, da “Villa Biondi”, casa di recupero per donne affette da disturbi mentali sulle colline pistoiesi dove, tra erbe aromatiche, amabili difetti e idiosincrasie, mutevoli come le nuvole, si incrociano storie di un dolore che sa ancora sorridere. E da lì, dove la commedia si mescola spontaneamente alla tragedia, dove non si riesce a distinguere con chiarezza chi recita la parte del matto da chi matto lo è davvero (sul set c’erano attori professionisti e pazienti del Dipartimento di Salute Mentale di Pistoia), inizia la loro fuga da road movie verso il mare della Versilia di Stefania Sandrelli, Renato Salvatori e, soprattutto, Mario Monicelli. Paolo Virzì e Francesca Archibugi (che ha firmato, assieme al regista, la sceneggiatura) girano in questi luoghi La pazza gioia, presentato con grande successo alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes dopo Fai bei sogni di Marco Bellocchio e Fiore di Claudio Giovannesi, gli altri due film italiani selezionati nella sezione parallela del festival francese.

Beatrice è una ricca nobildonna logorroica, impicciona, estenuante e violenta, alla ricerca di una costosa felicità (che “non si può certo trovare in un tramezzino”), di (dis)avventure scaccia-noia, dell’ennesimo brivido vitale. Poco importa che sia una cena da sogno, scroccata come nella migliore tradizione della commedia all’italiana per zittire un attimino i demoni interiori, o una notte in discoteca. Ha tradito un ricchissimo avvocato che ha difeso Berlusconi per un immobiliarista truffaldino, un troglodita che alla sua dichiarazione d’amore risponde pisciandole in testa e cercando di approfittare di una generosa elargizione. Pazza, lei, perché incapace di incanalare le energie, disperse in fiumi d’alcol e di parole. Pazza, perché incapace di apprezzare fino in fondo la semplicità della vita.

Donatella, invece, è una ex cubista, spicchio di luna nera, un corpo filiforme scavato dall’inquietudine, chiusa in una tomba di silenzio e rassegnata sofferenza che chiamano “depressione maggiore” ma che in realtà si chiama “voglia di stare con Elia”, il figlioletto che i servizi sociali hanno deciso di toglierle per colpa della sua pericolosa instabilità. Pazza, quest’altra, perché capace di amare davvero, non come la madre credulona e anaffettiva (Anna Galiena), il padre inetto dalla giacca imbarazzante e pochi spicci in tasca (Marco Messeri), l’ex amante che rifiuta di riconoscersi padre. Pazza, perché fragile come una pianta storta, avvizzita nell’ombra invece di crescere nella luce.

La pazza gioia è la storia di una fuga dai sensi di colpa, dalle iniquità del mondo, dalla prigione invisibile dei condizionamenti, dalla ricorrenza assordante di un passato indigesto, dai vuoti dell’anima e dalle ossessioni della mente. È la ricerca dell’amicizia vera, della gentilezza, del volto di Elia, di un amore a lungo negato. È la gioia di vivere nonostante le difficoltà e di impazzire per colpa di esse. Virzì è il medico ideale: è lui il miglior Basaglia. Sa che l’essere nel mondo significa prendersi cura dell’altro, che per ogni dieci operatori più interessati al protocollo (l’assistente sociale interpretato da Sergio Albelli) che al ben-essere del paziente, ci sarà una splendida Fiamma (Valentina Carnelutti), pronta a battersi per quello in cui crede per vocazione vera. Sa che quando tutto sembra perduto, al massimo dello smarrimento, potremmo risvegliarci a due passi dalla felicità che ci sorride, come Elia a Donatella nella bellissima scena sulla spiaggia, con l’apparecchio in bocca. Un attaccamento maturo alla vita che nasce dalla profonda consapevolezza della sua precarietà, del caos in cui si spesso si trascina, dalla voglia di raccogliere tutte quelle briciole di felicità che possiamo racimolare nel nostro eterno vagabondare, prima che sia troppo tardi. Senza pensarci troppo, come il Bruno Cortona interpretato da Vittorio Gassmann ne Il sorpasso di Dino Risi.

E per fortuna che ci sono le “mani grandi, senza fine” del cinema, che al ritmo malinconicamente speranzoso del valzer sognante di Gino Paoli, continuano a cogliere con pazienza i minuzzoli agrodolci delle nostre esistenze e a farne la materia splendidamente imperfetta in cui possiamo davvero riconoscerci un po’ tutti.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 19/05/2016

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