La metamorfosi del male

L’ennesimo mockumentary horror in cui uno spunto interessante, benchè risaputo, si perde nel tedio più totale

Mai giudicare un libro dalla copertina, così come non sarebbe opportuno costruire un’opinione su un regista a partire dalle opere al suo attivo: tuttavia, nel caso di William Brent Bell, è inevitabile partire con un pregiudizio non esattamente positivo. Nonostante un esordio brillante nel 1997 con Sparkle and Charm, un comedy drama dagli spunti efficaci, le sue successive incursioni nel genere horror hanno dato frutti scarsamente incoraggianti; nel 2006 firma Stay Alive, un teen-survival in cui l’azione ha luogo all’interno di un videogame, idea non malvagia ma resa senza la benchè minima grinta, con un narrato piatto ed effetti risibili. Ma il vero scheletro nell’armadio del regista è il film seguente, che giunge a sei anni di distanza, il pressochè inguardabile L’altra faccia del diavolo (The devil inside, 2012), mockumentary esorcistico in tutto e per tutto risibile, nonché girato con una camera a mano talmente traballante da risultare poco sopportabile.

E’ dunque difficile approcciarsi al suo nuovo lavoro, Wer, gioco di parole tra “her” e “werewolf” (licantropo) - a cui in Italia è stato appiccicato un titolo “standard horror”, La metamorfosi del male - scevri da una serie di perplessità, per usare un eufemismo. In ogni caso, pur tentando di essere il più possibile oggettivi e sgombrando la mente dai fastidiosi residui dei film precedenti – un riscatto è ovviamente sempre possibile – anche l’ultima fatica di Bell finisce irrimediabilmente per deludere lo spettatore. Realizzato nel 2013 ma approdato nelle sale internazionali soltanto nell’anno in corso, Wer è un mockumentary in cui si affronta la tematica della licantropia da un punto di vista che vorrebbe essere realistico, con uno spunto in fin dei conti potenzialmente funzionale, ma che finisce purtroppo per disperdersi a causa di uno script troppo debole (firmato dallo stesso Bell a quattro mani con Matthew Peterman) e di un impianto risaputo e a tratti fortemente televisivo, a partire dalla protagonista A.J.Cook, volto noto sul piccolo schermo per il ruolo di Jennifer Jareau nel serial Criminal Minds.

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Vediamo la Cook nei panni di un avvocato statunitense, residente in Francia, impegnato nella difesa dei diritti civili, che prende in carico il caso di Talan Gwynek (Brian Scott O’Connor) un uomo affetto da porfiria e accusato in modo troppo sbrigativo dell’efferatissimo omicidio di una famiglia in vacanza nelle lande francesi, massacro a cui sopravvive solo la madre, che i finti telegiornali ci mostrano sfigurata in un letto d’ospedale. L’attacco pare essere, sulle prime, opera di un animale selvaggio, ma la realtà si rivelerà essere ben diversa.

Bell imbastisce il narrato inserendo alcuni punti degni di interesse, ad esempio la corruzione del sistema che accusa Gwynek in base ad interessi speculativi sulla terra che possiede, insieme alla porfiria, patologia spesso associata anche al vampirismo. Ciò che poteva esserci di buono, tuttavia, viene svilito in primis dal triste trionfo dei luoghi comuni e del risaputo: la famiglia Gwynek proviene - com’è ovvio – dalla Romania, c’è il solito sub-plot pseudo romantico con lo specialista/ex-fidanzato Gavin (Simon Quarterman), personaggio a cui si addosserà una componente tragica, e via discorrendo. Il passaggio dal realismo della malattia alla consapevolezza della componente sovrannaturale, ossia la licantropia, è praticamente inesistente, automatico, privo della benché minima drammatizzazione; lo snodo della trama è facilmente indovinabile fin dai primi dieci minuti, e la tensione fa capolino soltanto di rado, per sfociare nel “solito finale della solita storia”.

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L’idea di fondo, seppur non scadente, risulta derivativa in quanto segue un trend già presente nell’horror odierno in declinazione vampirica: quasi impossibile, infatti, non pensare ai pregevolissimi Afflicted (uscito da noi direttamente in dvd con l’orribile titolo di Videoblog di un vampiro) e soprattutto all’ancor più mirabile Chimères, opera prima dello svizzero Olivier Beguin che affronta una metamorfosi vampiresca assumendo un punto di vista profondamente umano e dolente. In entrambi i film il sovrannaturale viene declinato in chiave realistica, ma con esiti ben diversi rispetto al mockumentary di Bell, che sceglie la licantropia sprecando uno spunto che poteva dare frutti migliori.

Viene dunque spontaneo porsi qualche domanda in merito ai motivi che spingono i distributori italici a far approdare in sala prodotti mediocri e sostanzialmente vuoti come Wer, lasciando nell’oscurità titoli ben più meritevoli: si dice sempre che l’offerta risponde alla domanda, e che il pubblico vuole film come questi, ma è giustificazione fragilissima e poco veritiera. Se l’horror sta conoscendo un declino ciò non è dovuto alla mancanza di opere di valore, bensì al fatto che queste ultime vengano relegate ai circuiti festivalieri oppure home-video, offrendo allo spettatore in sala quello che può essere definito il peggio di un genere che resta vitale nelle sue forme sotterranee e meno conosciute.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 05/12/2014

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