La corrispondenza

Al di là della trama barocca ma disciolta in un romanzo epistolare tutto digitale, Giuseppe Tornatore allestisce un melò pleonastico e carico di amorosi non-sense.

Una carriera gloriosa, dorata come il grano di una solare Sicilia d‘amarcord (dove i ricordi d’infanzia in Baarìa finivano per omaggiare tutto un cinema del passato) e rigorosa quanto la ricerca ossessiva, del meccanismo oliato, rendevano La migliore offerta un ingranaggio di scrittura perfetto. Era innegabile, o almeno così sembrava, che Giuseppe Tornatore mostrasse le sue doti di sceneggiatore e di regista in misura tanto maggiore quanto più riusciva ad uscire dalla gabbia (spesso autoimposta) della sicilianità. Con La corrispondenza, racconto epistolare esaurito nei mezzi vecchi (lettere, pacchi postali) e nuovi della comunicazione (email, smartphone e CD-Rom), il regista premio Oscar per Nuovo Cinema Paradiso pare invece sfidare lo spazio e il tempo di uno sguardo che rischia sempre la dissoluzione. Fino a sciogliersi in una sincronia digitale fatta di pixel incastonati l’uno dentro l’altro, di passioni e sovrapposizioni accumulate, di un idillio immateriale che non trova mai il minutaggio sullo schermo. C’è un’alternanza oscura, se vogliamo incomprensibile, tra uno stato vegetativo dell’immaginazione e il tono magniloquente delle battute: una sospensione dell’incredulità che non conosce ostacoli di nessuna natura, ma avanza imperterrita – al pari di un romanzetto Harmony – con immotivato coraggio. E’ il terreno su cui Tornatore muove il tema ardito della vita dopo la morte, declinato in ogni sua forma e personaggio e giunto a moltiplicarsi per epifanie, doppi metaforici (la tesi scientifica sulle stelle che muoiono) nonostante una povertà di linguaggio che indugia sullo struggimento o sulle note melense di Ennio Morricone, dando fondo a tutta l’enfasi possibile che la cinepresa sia in grado di catturare.

Può allora l’amore superare i confini fra distanza e assenza, oltrepassando un mortifero destino (colpo di scena che interviene quasi subito) e seguire un infinito di rimandi alle vite precedenti dei protagonisti? Tante sono le allusioni simboliche per una storia costruita sulle assenze colpevoli, eppure così predisposta agli echi interiori dal suo venerato cineasta, tali da guardare al peggior cinema americano. Anche nei brevi momenti in cui aspira al viaggio onirico, a quello scarto/iperbole che rompa gli argini del cotè romantico e si faccia sentimento eterno, La corrispondenza ostenta una melassa zuccherosa difficile da ignorare; talmente demodé nella confezione ma compressa in un formato pc o tablet, da scollare sulle immagini un doppiaggio esorbitante e sempre fuori sincrono. Di sporgenza alla trama barocca, Jeremy Irons e la dolentissima Olga Kurylenko danno corpo e molta verbosità ad una sintonia che presto diventa il gioco forzato di un abbandono ancor più grande e misterioso. E’ qui, e non solo nella matrioska di una messinscena allestita con maestria tecnica, che Tornatore perde qualsiasi ancoraggio – di script e di retorica - senza lasciare un respiro vitale al suo melodramma tout court. Come si conviene al cinema 2.0, non basta allora lo stratagemma amoroso di un’alienazione legata agli strumenti elettronici per condannare, senza denigrarla, la vita contemporanea. Dove una serie di scoperte su di sé (il senso di colpa che la Kurylenko sfoga nel lavoro da stunt-woman) e l’altro (un’esistenza dolorosa e nascosta dalla vera famiglia per Irons), inneschi il più classico dei motori verso una travagliata rivelazione ed emancipazione auto-conclusiva.

Sopra le righe e connotato da una resa visiva stanca, La corrispondenza manca nel far suo un cuore emotivo trincerato in uno schermo nello schermo, ostaggio di un montaggio scolastico diviso tra bidimensionalità, meta-linguismo e una colonna sonora pleonastica. Flebile nello svelare subito il mistero, nonché ostentatamente letterario nel figurare i suoi improbabili comprimari (si pensi al traghettatore Ottavio-Caronte interpretato da Paolo Calabresi). L’ennesima opera di un autore italiano pensata per una distribuzione internazionale (non poi dissimile all’operazione di genere fantasy portata da Garrone con Il Racconto dei Racconti) ma incastrata dai monologhi, che vive pigra sugli agi delle star di cui dispone e conferma una noiosa incapacità di stupire persino nei movimenti della macchina da presa. Tutto echeggia di strazio nel dramma-melò di Tornatore, pure quando lo scopo impossibile sarebbe quello di raccontare un lutto che sopravvive nella mente di chi guarda e ha amato: perché la schiavitù sentimentale di Amy nei confronti di un uomo divenuto fantasma pixellato, non è altro che l’elaborazione di un ricordo che durerà salvato nell’eternità della sua retina (al contrario di un fragilissimo supporto tecnologico bruciato lento dal tempo). Forse in quest’ultima, seppur un po’ naif e piangente considerazione, traspare il lato più tenero di un intento filmico che ha lasciato spazio all’appagamento artistico. Una rovinosa caduta senza alibi, dal risultato troppo molle e patetico.

Autore: Francesco Bruni
Pubblicato il 14/01/2016

Ultimi della categoria