Kahlil Gibran's the Prophet

L’adattamento animato dell’opera di Kahlil Gibran è una sfida che si rivela fallimentare e discontinua nella sua stessa struttura.

La sensazione che lascia la visione di Kahlil Gibran’s The Prophet è quella di aver assistito a un oggetto filmico sconfitto in partenza, che cerca invano di assumere una sua identità omogenea. Operazione tanto fallimentare quanto impossibile, dal momento che la fluidità dell’immagine animata si scontra con l’inevitabile frammentarietà della carta. Prendere un’opera capitale per il nostro novecento come Il profeta di Kahlil Gibran e tentare di reinventarla su grande schermo è di per sé un’impresa folle ed ardita.

Come tradurre le suggestioni che abitano l’opera di Gibran, come dar vita a un fantasma letterario, come intercettare la luce di una poesia? Probabilmente senza restituirgli carne e ossa, senza rivelare un corpo, rifugiandosi all’interno del più libero mondo dell’animazione. Canto sulla vita, sulla morte, sulla miseria e sulla libertà, sulla solidarietà e sulla sacralità dell’esistenza, scaturigine di controversie filosofiche e di massimi sistemi, il testo di partenza non può fare altro che volare via, per la sua natura visceralmente sfuggente.

Roger Allers, co-regista de Il Re Leone, architetta il contenitore narrativo, una scatola piuttosto esile dove far confluire otto differenti suggestioni tratte dalle parole di Gibran. Queste otto sequenze diventano, a loro volta, otto cortometraggi interni assegnati a diversi maestri d’animazione di fama internazionale (Paul e Gaeton Brizzi, Tomm Moore, Michal Socha, Joan Gratz, Joann Sfar, Nina Paley, Bill Plympton e Mohammed Saeed Harib).

Il problema, com’era prevedibile, è l’eccessiva discontinuità dell’operazione, la totale mancanza di linee guida che possano rendere compatto l’intero film. Si passa da sequenze musicali che, in questa cornice, sfiorano inevitabilmente gli insidiosi terreni del pacchiano, a inserti vibranti, poetici e acquerellati, che fanno intravedere le potenzialità di un lavoro sfuggito di mano. Se alcuni corti in sé presentano una forza evocativa e immaginifica non indifferente (su tutti quello del regista Bill Plympton, essenziale e geniale nella potenza del suo tratto), una volta accostati finiscono per discostarsi da qualsiasi pretesa di unità. Come se ci trovassimo in una sinfonia dissonante, dove però la dissonanza è completamente anarchica e abbandonata a se stessa. Anche il motivo conduttore non convince pienamente: già a partire dal tratto, la storia principale diretta da Roger Allers, riporta pedissequamente alcune riflessioni di Gibran con far altisonante. Si sovraccarica così un disegno che si limita al volto umano e lascia quasi sempre da parte la potenza narrativa dello sfondo. Ne consegue un cinema talmente didascalico da esser respingente, finendo per annoiare i bambini e stuccare gli adulti, senza nessuna soluzione di continuità. Se almeno la sfida del film avesse circostanziato la lotta tra parola e movimento, tra poesia e immagini, si sarebbe aperto a una tensione ottica e narrativa dalla carica non indifferente. Invece ciò che viene a mancare è uno sguardo in grado di abitare le differenze, senza alcun tentativo di sintesi, ma come un audace, impenetrabile salto nel vuoto.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 19/10/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria