Jurassic World - Il regno distrutto

Il regno distrutto è quello della società dei consumi e dei miracoli tecnologici della scienza, un mondo in cui è l’uomo ad essere l’animale più pericoloso.

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Ritorna sugli schermi, a tre anni di distanza dall’ultimo capitolo, la saga inaugurata nel 1993 da Jurassic Park, e non sembra conoscere via d’estinzione. Partendo da una robusta fan base che ha vissuto la propria adolescenza nel mito dei dinosauri creati da Spielberg, questa fase, questo universo di sequel, il primo Jurassic World, nella ridefinizione e riconfigurazione del tema, cerca di rivisitare e rivitalizzare l’immaginario fidelizzando una nuova generazione, figlia degli effetti speciali del blockbuster hollywoodiano piuttosto che del valore nostalgico del cinema come creatore di mondi, ottenendo, per il momento, enormi consensi di pubblico. Ad oggi infatti Jurassic World è il quinto incasso al box office nella storia del cinema. La regia di questo nuovo episodio, Jurassic World – Il regno distrutto, è affidata a J.A. Bayona, formatosi con il cinema horror (The Orphanage) ma con alle spalle un’acquisita dimestichezza con i grandi mezzi di produzione del cinema americano (The Impossible).

Ripartendo esattamente dalla conclusione dell’episodio precedente, la distruzione del parco sull’Isola di Nublar, il film esordisce mostrando lo scontro tra una parte dell’opinione pubblica e le autorità e istituzioni per quanto concerne il destino dei dinosauri. Liberi di aggirarsi tra le macerie di quella che una volta era la loro prigione, gli animali, ancora confinati sull’Isola, rischiano di venir seppelliti dalla lava di un vulcano che ha ripreso l’attività eruttiva.

Saranno Claire (Bryce Dallas Howard) e Owen (Chris Pratt), i protagonisti del primo episodio, che con i dinosauri avevano creato un rapporto di empatia, a guidare la missione di salvataggio, finanziata da Benjamin Lockwood (James Cromwell) un miliardario e socio nascosto di Hammond (Richard Attenborough), l’uomo che fondò il parco nel film originale. Nonostante manchi il parco, quindi la dimensione ludica, la spettacolarità attrattiva delle nuove forme di turismo, delle nuove forme di esperienza nell’interazione con gli animali grazie ad infrastrutture ipertecnologiche e fallaci sistemi di protezione all’avanguardia, il film ritorna a riflettere sulla natura contraddittoria delle scelte dell’essere umano. Questo nuovo universo non mostra esclusivamente le conseguenze del fallimento del delirio di onnipotenza dell’uomo, mosso da un impulso creatore figlio della tecnica che l’aveva visto immaginarsi Dio, cambiando il corso della Storia, e portando in vita i dinosauri, concretizzando e alimentando fantasie e fantasmagorie dell’immaginario collettivo. Oltre alla continua riflessione su come la natura colpita e sfruttata arrivi a reagire, formula iniziale dei disaster movie, il film riflette ancora una volta sul dominio della tecnologia. Se originariamente i dinosauri venivano esposti nel parco, seguendo comunque delle logiche commerciali e di profitto, per fare in modo che i visitatori potessero vivere un’esperienza unica, nel nuovo universo di Jurassic Park gli animali perdono una connotazione ludica, nostalgica e di intrattenimento, per diventare strumenti bellici, macchine in mezzo alle macchine, figurazioni di nuove mitologie figlie ancora una volta della società dei consumi e dei miracoli tecnologici della scienza. I dinosauri non servono più per costruire e stimolare l’immaginario collettivo in quanto trofei da vendere al miglior offerente.

Nonostante sia condizionato e guidato inevitabilmente dalle esigenze e dai piani degli studios, Bayona ritorna ad alcune tematiche che caratterizzano i suoi lavori precedenti. Per prima cosa, tra gli elementi più interessanti, la perdita dell’innocenza e l’ingresso nell’età adulta della piccola Maisie, l’esordiente Isabella Sermon, che deve affrontare le creature che hanno segnato la propria infanzia e popolato i racconti del nonno, ma che non aveva mai visto con i propri occhi. Un ritorno allo stupore e al terrore infantile dopo l’esperienza messa in scena in Sette minuti dopo la mezzanotte, in cui i mostri erano figurazioni del trauma, della memoria repressa del bambino così come strumento per la rielaborazione del lutto dovuto alla perdita della madre. Scevro da qualunque elemento splatter, che potrebbe urtare la sensibilità dei più piccoli e portare un probabile divieto ai minori, Il regno distrutto gioca sull’elemento della suspense attraverso alcune scelte stilistiche, che seppur non del tutto innovative, risultano estremamente funzionali all’interno del racconto. Magistrale da questo punto di vista la scena all’interno della libreria della villa di Lockwood, dove giochi di luce, specchi e riflessi, proiettano ombre minacciose e distorcono l’immagine, dando vita ad una manifestazione dei peggiori incubi della bambina.

Se Spielberg attraverso la computer grafica, come Hammond, aveva ridato vita a creature presenti solo nei libri o nella fantasia, dandole una struttura ed una traccia “referenziale”, portando avanti inoltre un discorso sulla natura ontologica dell’immagine cinematografica, il nuovo universo finzionale sembra concentrarsi prevalentemente su come l’ingegneria biomedica e le nuove iper-tecnologie stiano segnando la nostra società e la nostra esperienza. Una perdita dell’autenticità a cui si risponde con un ritorno alla vita secondo natura, con l’attenzione rivolta sempre verso l’essere umano, l’animale più pericoloso.

Autore: Samuel Antichi
Pubblicato il 12/06/2018

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