Jersey Boys

Con Jersey Boys Clint Eastwood prosegue nel suo percorso neoclassico, anche se questa volta inciampa nell'agiografia priva di mordente

Inteso come ennesimo confronto con un pezzo di Storia del proprio paese e della sua cultura, Jersey Boys appare come un film assolutamente in linea con il percorso neo-classico compiuto da Clint Eastwood negli ultimi venti anni. Dai Novanta in poi infatti il suo cinema ha continuato a puntare come un faro nella notte alla classicità di un mondo perduto, ricercando e replicando con una forma sobria e cristallina quell’ordine nello stato delle cose che appare oggi inevitabilmente alterato. Senza rinchiudersi in una nostalgia aridamente e semplicemente celebrativa, film come Million Dollar Baby, Gran Torino e J. Edgar nascono dalla volontà di mettersi a confronto con un cinema che non c’è più per evidenziare attraverso tale rapporto il mutare inesorabile della realtà tutta. In questo processo torna allora a fiorire quell’autorialità apparentemente invisibile della Hollywood classica, impercettibile ma certa della propria funzione mitopoietica, filigrana di ogni immagine volta sempre e comunque alla solidità del racconto. In questo percorso appare assolutamente normale la decisione di Eastwood di girare la versione cinematografica del musical Jersey Boys, anche se l’incontro con i The Four Seasons appare una tappa molto più celebrativa e aproblematica delle precedenti, fin troppo edulcorata nei toni e nelle soluzioni.

Basato sull’omonimo musical del 2006 scritto da Marshall Brickman e Rick Elice, Jersey Boys racconta la parabola di quattro giovani italoamericani, mezzi delinquenti e mezzi musicisti, e dei loro tentativi di lasciare la povertà e la criminalità del quartiere per sfondare nel mondo della musica. Ad aiutarli e sorreggerli il boss locale Gyp DeCarlo, già famoso per i suoi ambigui contatti con Frank Sinatra. A guidare il gruppo c’è all’inizio l’intraprendente Tommy DeVito, ma sarà soprattutto la voce di Frankie Valli a farli emergere dall’anonimato per lanciarli in una carriera milionaria, costellata di successi ma anche di loschi intrallazzi e forti litigi, tali da portare allo scioglimento del gruppo all’inizio degli anni Settanta.

Scritto dagli stessi Brickman ed Elice, Jersey Boys evita la formula del musical per farsi piuttosto bildungsroman a sfondo musicale, racconto di vita di quattro ragazzi tra cui spiccano i due amici d’infanzia, Frankie e Tommy. Sono le loro voci a guidare principalmente la storia, anche attraverso sguardi e discorsi rivolti direttamente in camera dal sapore vagamente scorsesiano. Specie all’inizio infatti il film di Eastwood sembra voler prendere la strada dei goodfellas di Scorsese, ma il gioco della battuta ironica e della narrazione extradiegetica rimane sempre tale, gioco, senza che null’altro arrivi a supportare la narrazione in tal senso. Al centro di tutto c’è l’evoluzione emotiva di Frankie e gli eccessi di Tommy, ma nulla di quanto accade per quanto grave emerge mai da un’atmosfera favolistica di delicata rivisitazione nostalgica. L’unico evento potenzialmente dirompente, la morte della figlia di Frankie, è più una cometa che un momento di rottura. L’impressione generale è allora quella del compromesso, lo sguardo eastwoddiano ad un mondo perduto dietro il cui ordine non mancano comunque tensioni e storture, ma anche l’autocelebrazione indulgente che rinuncia a scavare nel ricordo del passato, al contrario di quanto facesse il potente Changeling. Jersey Boys sicuramente diverte e intrattiene con grazia per i suoi 130 minuti abbondanti, ma la sensazione finale è ben più effimera di quella che siamo abituati a sentire alla fine di un film di Eastwood. Restano alcune splendide soluzioni visive e una mano registica che, qualora fosse anche la sinistra, rimane sempre una spanna sopra la media di tanti autori più giovani e appariscenti, ma da uno dei più grandi registi americani viventi era lecito aspettarsi qualcosa di più.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 07/08/2014

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