Irrational Man

Un'ipotesi di lettura lovecraftiana per un film capace che nasconde dietro la sua coazione a ripetere una natura profondamente più disperata, sottilmente più disturbante.

A prima vista, per essere un film intitolato Irrational Man l’annuale lavoro di Woody Allen sembrerebbe un’opera molto razionale, controllata, calibrata in toto sui pesi e le misure con cui ogni conoscitore del cinema alleniano è ormai in stretta confidenza. Nella parabola a-morale percorsa dalla mente filosofica di Abe Lucas (Joaquin Phoenix) infatti troviamo elementi estremamente familiari, dalla crisi dell’intellettuale (la cecità di Hollywood Ending come lo stallo del genio intellettuale costretto ad appiattirsi su vuoti stereotipi tardo-romantici) alla crasi di delitto e castigo, il tutto in relazione ad un mondo freddo come un orologio meccanico, sguardo beffardo dall’alto sempre incurante delle vicende umane.

Soprattutto è impossibile passare per Irrational Man e non pensare a Match Point, di cui il film potrebbe sembrare soltanto una variazione sul tema, portata a casa su binari tanto solidi quanto noti, sperimentati, comprovati. E tuttavia a guardare da vicino Irrational Man le cose non tornano, nello sguardo si insinua una discrepanza che non permette di fermarsi al primo, facile accostamento. C’è un che di hitchcockiano in tutto questo, un MacGuffin servito allo spettatore sotto forma di coazione a ripetere che nasconde dentro di sé una natura profondamente più disperata, sottilmente più disturbante.

Al contrario di quanto fatto attraverso il protagonista di Match Point, qui Allen non ci pone di fronte una scalata sociale, non offre al suo personaggio motivazioni materialistiche che lo spingano a compiere il delitto. Come il Raskol’nikov di Dostoevskij, che uccide la vecchia signora apparentemente per denaro ma lascia gran parte della refurtiva nella casa della vittima, Abe Lucas è spinto al delitto da un superomismo esistenziale totalmente introiettato nella sua soggettività. Non vi è alcun reale fine utilitaristico che giustifichi l’omicidio del giudice, del resto una volta origliata la conversazione nella tavola calda Lucas si disinteressa totalmente del fato della madre che teoricamente voleva aiutare uccidendo il bieco e opprimente uomo di legge.

Ma, in un film meno lapalissiano di quanto il suo didascalismo da bignami filosofico lascerebbe intendere, come entra dalla porta Dostoevskij esce anche dalla finestra, perché con tanto di libro sulla scrivania e citazione colta e richiami didascalici il suo Delitto e castigo è per molti aspetti il vero inganno del film. Il cuore della tragedia di Raskol’nikov non è il suo fallace superomismo ma la catarsi che lo attende alla fine del calvario, la consapevolezza para-cristiana che solo attraverso la sofferenza si possa arrivare ad un’autentica e sostanziale palingenesi. Per Abe invece non esiste alcun percorso di dolore perché non c’è più sofferenza, è il delitto ad averla cancellata via. Tutto lo spleen che caratterizza la prima fase della parabola di Lucas, quell’insoddisfazione incolmabile che diviene pretenziosità calcolatamente sfatta e godereccia propria dell’intellettuale in crisi, svanisce come neve al sole di fronte la radicalità di un’azione come l’omicidio.

In questo paradosso Irrational Man cresce e trova un suo senso originale, nel mettere in scena con disperata ironia l’inaccettabile via di fuga del soggetto da quella landa desolata, priva di leggi morali e divine, che è la vita umana. Un abisso che Allen decide di osservare avvicinandosi tanto da arrivare al cantore per eccellenza del vuoto cosmico in cui arranca la vita umana, H. P. Lovecraft. L’ideatore del pantheon cthulhiano attraversa in filigrana tutto il film, ambientato non a caso in un’università fittizia del Rhode Island, a due passi da Newport e Providence. E proprio la città natale dello scrittore ne fa da location, come dimostra la scena ambientata nella Providence Athenaeum in cui la Stone e il suo fidanzato disquisiscono di Abe Lucas davanti al grosso busto bronzeo dedicato al padre di Cthulhu e posto in bella vista nell’inquadratura.

Irrational Man come un film lovecraftiano? Non del tutto sicuramente, tuttavia il sorriso incredulo di Emma Stone nel finale è forse l’unico sguardo possibile che l’uomo può gettare nell’abisso senza impazzire. La scomparsa nel vuoto rappresentata dalla caduta in ascensore è lontana allora dal beffardo cinismo che ad esempio avremmo potuto trovare nel cinema dei fratelli Coen. Qui Allen ci porta a contatto con il nucleo più infantilmente irrazionale dell’animo umano, condannato all’infelicità dalla fallacia dei suoi sistemi di pensiero ma pronto a trovare nella violenza la chiave per accettare il caos ribollente e vacuo che lo circonda.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 08/01/2016

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