In nome di mia figlia

La compostezza di Daniel Auteuil nell’amore disperato di un padre

E’ l’amore paterno che diventa ossessione, è la fame di giustizia che si tramuta in vendetta. In nome di mia figlia è una storia vera che coinvolge due paesi e due uomini. André Bamberski (Daniel Auteuil) contro Dieter Krombach (Sebastian Koch), Francia contro Germania, il marito contro l’amante, il padre contro il presunto assassino della figlia. Vincent Garenq (Presume coupable, L’enquete) racconta questa storia che parte dagli anni ‘70 in Marocco per arrivare ad oggi, nel cuore dell’Europa.

Kalinka Bamberski (Emma Besson) muore misteriosamente nel 1982, in una calda notte di luglio mentre era in vacanza con la madre e il fratellino nella casa del patrigno in Germania. Il dottor Krombach, il patrigno della ragazza, racconterà che quel pomeriggio aveva iniettato a Kalinka una dose di ferro, affinché si abbronzasse con maggiore facilità. L’esito dell’autopsia evidenzia come il comportamento e l’intervento del medico sia stato alquanto bizzarro e sospettoso.

André Bamberski inizia a dubitare dell’uomo che già le aveva portato via la moglie, e intraprende una durissima lotta legale, per far luce sugli avvenimenti legati alla morte della figlia. L’iter processale lo porterà a compilare quello che lui definisce il ‘dossier’: dati, testimonianze, incongruenze, numeri che possono incastrare il compagno della moglie. Emergono particolari inquietanti legati alla professione dell’uomo e complicati rapporti diplomatici fra Francia e Germania.

La storia di Bamberski ha sconvolto due nazioni per decine di anni, e il film di Garenq si rifà al memoriale dell’uomo. Infatti, di fronte all’indifferenza della giustizia francese e di quella tedesca, André è diventato il paladino della causa della figlia, e ha combattuto per anni, facendo immensi sacrifici personali ed economici. La promessa che ha fatto sulla tomba di Kalinka diventa la sua unica ragione di vita. La storia di quest’uomo e della sua infinita battaglia va al di là si ogni pensabile sceneggiatura ed è credibile solo perché realmente accaduta.

Sullo schermo Bamberski ha la forza, l’autorevolezza e la determinazione di Daniel Auteuil, che si muove fra tribunali e adulteri, piange e si dispera, promette giustizia e vendetta grazie alla potenza di uno sguardo. Auteuil è Bamberski nella sua freddezza e nel suo amore smisurato per la figlia, nella sua compostezza quando scopre il tradimento della moglie, e nell’incommensurabile dolore di fronte alla morte, intenso ma mai esagerato. Garenq cavalca l’onda della compostezza, come aveva fatto nei suoi precedenti lavori, raccontando questa storia con toni distaccati e mai invasivi. La camera si ferma e stacca un minuto prima di sfociare nello sdolcinato, d’altronde la storia non ha bisogno di accenti, né di sottolineature. L’essenziale è sufficiente a trasmettere la determinazione di Bamberski e l’eccezionalità della sua vicenda, la sobrietà non eclissa l’emozione.

Il risultato è una pellicola diretta all’intelligenza e al cuore, piuttosto che alla pancia, che evita facili furberie. Il montaggio, al quale Garenq ha lavorato per oltre un anno, è rapido ed asciutto, e regala la cronaca degli avvenimenti con pochissimi inserzioni temporali. Un lavoro a togliere piuttosto che ad aggiungere. A lenire gli spigoli e le minuzie legali, a scandire gli eventi nel corso di 27 anni, senza abbondare nelle emozioni, trasmettendo con misura e rigidità tutta la disperazione del padre. La dignità di quest’uomo si manifesta in ogni scena: quando distribuisce volantini o inveisce contro un magistrato, sempre in nome della figlia, sempre in nome di un amore strappato con troppa violenza. E’ il racconto dell’amore paterno, prima di quello giudiziario, di un amore implacabile, e di una vita che continua oltre la morte grazie alle azioni del padre. Gli altri personaggi, il patrigno e l’ex moglie per esempio, diventano delle figure piccole e di contorno d’innanzi alla smisurata dignità di Bamberski e alla performance di Auteuil; così come lo scontro marito versus amante, che pure ha un peso intrinseco, è dipinto con la stessa sobrietà di tutta la pellicola.

Sullo sfondo il Marocco, la Germania e la Francia, paesi che cambiano negli anni e regalano suggestioni e visioni di altri tempi e di altri luoghi; ma oltre la parvenza di ordine e civiltà si può ancora perdere il significato della parola giustizia.

Autore: Shaila Risolo
Pubblicato il 10/06/2016

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