Il passaggio della linea

Confessioni di vita destrutturate in una dimensione extratemporale, tra passato, presente e auspicabile futuro migliore. I transiti del folgorante esordio di Pietro Marcello

“… quest’estetica della confusione trascina nel suo vortice vago e catastrofico, in senso proprio, un’arte, un’industria, una magia, un fatto di cultura e civilizzazione, non si sa come dire: il cinema, che ha abbracciato come nient’altro il proprio secolo.”

(Raymond Bellour, Fra le immagini )

Il passaggio della linea è la folgorante e lungimirante opera agli esordi del linguaggio “fra le immagini” (anziché delle immagini) del documentarista casertano Pietro Marcello. Miglior documentario ai David di Donatello nel 2008 e futuro vincitore del Torino Film Festival nel 2009, per aver firmato una perla di cinema italiano: La bocca del lupo .

Al valico dei confini visuali e antropologici, la mano dell’autore scompare nell’atto d’affondare l’obiettivo nell’osservazione neutra, fluttuante tra l’intervista libera e il dialogo poetico sonoro, per riemergere alla registrazione fluida della realtà, solo quando avvinto dall’ascolto visivo, muto e scollegato dalle regole della conversazione. Così come inafferrabile appare il cuore della sceneggiatura, senza altro referente se non l’opacità di una apparizione e la sparizione che la colpisce.

La trama non esiste che in noi, come risposta alla messa in atto dell’identificazione, che risiede solo in ciò che si identifica. Un appello allo spettatore che, catturato da questo abbandono al tempo frammentato delle singole storie, modelli la propria a piacimento. I ganci di trazione dei vagoni del treno, come battiti di palpebre.

Marcello documenta le vite in viaggio lungo i binari che attraversano l’Italia, ma non linee qualunque, quelle dei treni espressi a lunga percorrenza, carrozze, scompartimenti, corridoi, in cui l’unico confort, mai scontato, è la condivisione tacita e tollerante della notte insonne, raggelata da disillusione, sacrifici, emarginazione e pregiudizio. Confessioni di vita destrutturate in una dimensione extratemporale, tra passato, presente e auspicabile futuro migliore. Contesto e intreccio scaturiscono dal cercato contrasto tra i silenzi di luci e paesaggi (periferie, cantieri, foreste di tralicci, mareggiate e albe, panorami in qualche modo per natura in rivolta) e la babilonia buia e angusta di voci, volti e dialetti, accomunati dal percorso imprescindibile del destino. Immigrati dal Nord al Sud Italia e ritorno, extracomunitari, barboni, giovani e anziani, in cerca di fortuna, riscatto o semplicemente di qualcuno a cui parlare di sé.

Una geografia dei non luoghi dell’anima, assuefatta ai cartelli azzurri delle stazioni vuote, sfocate, illuminate al neon.

Déjà vu che si susseguono nel tempo di un andirivieni perpetuo. Cinema di montaggio e ferrovia: il progresso industriale e immaginifico agli albori del ‘900. Lì dove nasce il viaggiatore immobile, lo spettatore passeggero tra le immagini, smarrito nel trambusto di raccordi e passaggi di senso, eppure parte integrante del moto di prospettiva al di qua e al di là dello schermo vetrato. Pietro Marcello realizza un viaggio attraverso i due mezzi per amplificare le voci di quegli ultimi, che intrappolati nella propria tragedia, probabilmente ignorano di rimettersi al cinema come pensiero scopico errante. E proprio nei vuoti della narrazione, l’autore innesca le più grandi carrellate esistenziali, in cui la riflessione che muove dall’osservazione indietreggia per dare respiro ai propri soggetti. Sul finale la rappresentazione, pare svuotarsi allora del suo bagaglio umano, per stabilire una distanza mentale, in cui l’immagine cercando di sottrarsi nella chiusura al nero, riesce ad aumentare la propria portata, ovvero poter convertire il proprio passaggio in coscienza e memoria.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 20/09/2015

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