Il Padrone della notte - Frammenti di discorso… sul cinema di James Gray

di James Gray

Tra Coppola e Dostoevskij, cinema di genere e trascendenza, un viaggio tra le immagini più pure e preziose del nuovo cinema americano.

james gray director

«Quel che respingo come troppo semplice, quella è la cosa importante che bisogna approfondire. Stupida diffidenza verso le cose semplici».
Robert Bresson

«Tu. Tu sei il finale che stai cercando…».
Francis Ford Coppola, Twixt

James Gray chiede tanto, forse troppo, allo spettatore contemporaneo. Come un fanciullo innamorato del suo giocattolo preferito (il cinema, la vita, ma c’è poi differenza?) spalanca fiducioso le braccia e pretende una radicale e anacronistica onestà di sguardo. Oltre l’immagine. Non c’è scampo allora, bisogna avere il coraggio di immergersi nella propria privata notte, senza censure o falsi orpelli, sentire-guardare-sentire, per superare di slancio la stupida diffidenza verso la sublime semplicità del suo cinema. Ci risiamo: Europa e America, Bresson e Coppola, la Trascendenza e il Mito, l’uomo e lo spettacolo, e in mezzo un oceano da attraversare come un coraggioso immigrant che non ne vuole proprio sapere di rinunciare al sogno. A costo di fare solo cinque film in vent’anni di carriera, solo quelli che senti di dover essere, come il maestro Coppola insegna: il cinema, in fondo, è un fugace Twixt.

Cinema di genere e cinema trascendentale. Nato dalla consapevolezza che l’uomo occidentale si racconta (e continua a farlo, imperterrito, anche nei nuovi domini della téchne digitale) attraverso narrazioni canonizzate e fortemente archetipiche; ma con l’ulteriore aspirazione a mettere in costante dubbio ogni rassicurante sutura opponendo un personale sguardo contemplativo, titubante, incerto e costantemente lacerato. Ed è qui che risiede la distonia forse più straniante: in quel matrimonio imperfetto tra il retroterra dostoevskiano (un eco indelebile per il giovane discendente di immigrati russi all’inizio del novecento) e il sentire cinematografico all american (il culto, che a volte sfiora la serigrafia, per Coppola, Cimino, Scorsese). I suoi cinque film si originano da una costante tensione tra questi due poli, e i personaggi che li popolano appaiono come Esseri desideranti che lottano contro la propria predestinazione (familiare, sociale, culturale) immergendosi (in)volontariamente in universali dubbi. Sono uomini del sottosuolo che fuoriescono dalla loro tana perché afflitti da una nobile ed endemica inadeguatezza, configurata dai più codificati arnesi del mestiere (i generi, i colti rimandi interni alla storia della musica o della letteratura, il lavoro costante con gli stessi attori).

Il cinema. Di quei continui sguardi fuoricampo verso il nulla che ci regalano Tim Roth, Mark Wahlberg o Joaquin Phoenix, noi spettatori non ne vedremo mai il controcampo. È come se la loro (nostra?) umanità non potesse essere compres(s)a dal film e allora eccede: evade dalla narrazione contingente e si sposta in un indefinito fuori campo, che produce qualcosa di più intimo e nel contempo universale. Un qualcosa di bressonianamente semplice che val la pena di indagare.

Joaquin Phoenix è il perenne straniero camusiano intrappolato in un’inquadratura sempre troppo stretta per contenerne l’esuberanza umana-e-attoriale, costringendo la regia a sporcarsi con piccole trasgressioni formali – sguardi verso la cinepresa, macchina a mano, rallenti appena accennati, zoom lenti e inesorabili –, creando delle “pieghe” nel tessuto della narrazione classica e fungendo da “figura” della crisi. Un’umanità lacerata e colta nel fatidico momento della scelta, in ogni angolo di strada, in ogni locale o discoteca, in ogni casa e dentro ogni stanza dove spesso c’è una madre (Vanessa Redgrave, Ellen Burstyn, Faye Dunaway o Isabella Rossellini) che stana la disperazione del figlio e funge da specchio deforme per la parziale rinascita. Una rinascita pura, inaspettata, giusta, sincera, leale, spesso figlia di un singolo evento decisivo che opponga alla rovinosa sconfitta sociale una sofferta e laica libertà trascendentale. Il protagonista di Little Odessa è subito colto nel movimento. Joshua è un killer spietato, una sorta di automa-spirituale-bressoniano apparentemente privo di emozioni: ed è qui che il film inizia, nel momento del contatto con la Famiglia, il legame di sangue, il risucchio verso il quartiere natio e il nuovo scontro con il Padre che è la base di tutto il cinema americano classico. Ora, disegnata questa solida mappa referenziale, Gray si muove negli interstizi di una apparente classicità perpetrando continui deragliamenti al percorso di “genere” e affidandosi a Reuben, il fratello più piccolo di Joshua, come suo alterego nel film. Ragazzino che si limita a opporre uno sguardo sulle cose – a fare il regista insomma – inquadrando la codardia del padre, l’abisso morale del fratello o i patimenti della madre che appassisce stroncata da un male incurabile. Ecco: gli insistiti primi piani in Little Odessa diventano icone laiche immerse nel buio (ricordate i Fratelli o i Vampiri di Abel Ferrara?), rinegoziando ogni classico “arco di trasformazione del personaggio” per dialogare direttamente con l’Affetto di noi nudi spettatori.

La famiglia. Cinema di padri e di figli. Di quei milioni di “non detti” che faranno sentire il loro eco in un sorriso smorzato, in una parola sussurrata, in uno sguardo imbarazzato a occhi bassi. Proprio come Leo in The Yards (forse la miglior interpretazione di Wahlberg, talmente sotto le righe da apparire quasi un fantasma) che esce di prigione dopo quattro anni e viene accolto dalla sua famiglia al completo, riunita in un malandato appartamento sul quale si abbatte un improvviso black-out. Un nero che avvolge i personaggi e lo schermo, piccola trasgressione formale che è come una premonizione. La notte. Leo sa bene che la sua vita è irrimediabilmente segnata secondo le regole della strada: gli si prospetta una scelta (da parte dello zio, interpretato dal Padrino James Caan) e non può far altro che essere risucchiato dal circolo determinista che lo ha avviluppato sin dalla nascita. Nonostante gli sguardi della sofferente madre Ellen Burstyn e dell’amata cugina Charlize Theron continuino imperterriti a poggiarsi su di lui: la luce. Il violento percorso del ragazzo smaschererà una babele di corruzioni, in ogni accezione, in ogni ambito, e terminerà con una scelta morale che mozza il fiato per il dolore che sottende: Leo sa perfettamente di essere stato sconfitto dal destino e dalla società, e l’ultima cosa che gli rimane da fare è salvare se stesso agli occhi della madre. Salvarsi l’anima:

«So di non essere il figlio che volevi. Speravo di riuscire a rigare dritto, l’avevo promesso a me stesso. Ho sbagliato in passato, ma stavolta no, non ho ucciso io quell’uomo. Lo so, non avrò mai l’opportunità di redimermi, ma volevo solo che tu lo sapessi. Non sono stato io mamma…»

Redenzione. Come nel successivo I padroni della notte, film pressoché dominato dalle Famiglie: Bobby (Joaquin) ne ha addirittura due e deve assolutamente scegliere di stare «o con i trafficanti o con noi poliziotti!» come gli intima il padre Robert Duvall (altra icona coppoliana, sì, Francis è sempre più il padre di questo cinema), in una secca dicotomia lessicale che ha quasi sapore di western classico. I noir/gangster movie firmati dal figlio James Gray diventano saghe familiari coppoliane scrostate della loro aura mitica (come Il Padrino che diventa semplicemente “un padrino”), distillate nel percorso di un singolo destino e fuse al nostro sguardo ad altezza di schermo. Bobby/Joaquin ha cercato tutta la vita di evadere dal solco tracciato dalle sue tante Famiglie, ma dal legame di sangue non si sfugge ed è costretto a scontrarsi col proprio passato (come Joshua, come Leo, come tutti noi) pagando conseguenze pesantissime. Oltre la morte, oltre il dolore, oltre la sconfitta, oltre il cinema drogato e ammiccante di questi anni, tutto per ritrovare un fratello: «Ti voglio bene Bobby…ti voglio bene anch’io». Fine. Questo è il cinema di James Gray: un’abissale purezza di sguardo nel denudamento totale dell’immagine. E chi se ne frega di tutto il resto, rimane solo…

L’amore. In Two Lovers si inizia addirittura con un tentato suicidio: dalla prima inquadratura Leonard ci viene presentato come inadeguato al suo mondo, già perso nel suo presente, già alla fine della parabola che i suoi predecessori hanno percorso. Ma tutto ciò è interrotto da un fugace incontro sulle scale del palazzo di casa, a pochi passi dalla Famiglia. Un attimo, uno sguardo, un sospiro mozzato, poche parole e l’amore nei suoi occhi è già nato. Il desiderio lo ha travolto. Michelle (l’algida Gwyneth Paltrow) piomba nel cinema di Gray come una fantasmatica immagine hitchkockiana: un’icona incarnata del desiderio impossibile, bionda come tutte le eteree muse del maestro, irraggiungibile come Ingrid Bergman o Grace Kelly. Leonard la scruterà dalla finestra di casa sua, dal basso verso l’alto, come la più bella delle immagini cinematografiche che non si possono toccare ma solo guardare.

Il sogno. Deviazione improvvisa, detour inaspettato che va a intralciare un percorso già scritto: il giorno precedente (questa vota non a caso) Leonard aveva incontrato Sandra, la ragazza “reale”, il porto sicuro, la scelta giusta da fare. All’uomo del sottosuolo si chiede nuovamente di scegliere, “o di qua o di là”, e come ogni essere umano è fatalmente calamitato dal desiderio. Ma Leonard questa volta chiede troppo (come James Gray) e da fragile personaggio di un film vuole addirittura impadronirsi del Cinema tutto: la finestra sul cortile di Michelle diventa lo schermo di un voyeurismo hitchcockiano sul quale il protagonista vuole avere un controllo, acquisire una posizione attiva, essere il regista del suo sogno. «Sai di che mi sono reso conto? Che non ti ho mai vista davvero!». Leonard perderà rovinosamente: Michelle è il sogno di un cinema che Gray non toccherà mai, lo “spettacolo hollywoodiano”, ridotto a polvere di stelle che deve essere convogliata verso il secondo dei Two Lovers per sopravvivere. L’amore che nasce dallo sguardo umanissimo di una madre che ri-accoglie un figlio; l’amore per una ragazza “semplice” a cui confidare la propria inadeguatezza a sognare; l’amore sconfinato per il cinema che viene ora confinato in quell’occhio in crisi di Joaquin puntato dritto verso di noi. Un frame che ci turba e ci denuda mentre abbraccia(mo) fatalmente…

La vita. Una vita altra e ancora possibile, attraversando l’oceano. Ewa e sua sorella, The Immigrants dalla Polonia all’America: tra Spettacolo e Sentimenti, prostituzione e carità, sangue e carezze. La conquista del nuovo mondo è un ennesimo percorso filmico segnato nel dolorossissimo congedo dal vecchio (anche cinematografico: strazia il cuore l’omaggio a Coppola e Gordon Willis delle prime inquadrature) terminando con l’unico evento decisivo che possa suturare ancora ogni frammento. Notte, luce, redenzione, sogno e vita: rinunciare alla propria esistenza e al proprio futuro per donare la libertà a chi si ama. «Ti voglio bene… Ti voglio bene». Il cinema di James Gray, sempre più invisibile e mal distribuito, è l’immagine più pura e preziosa di questo decennio.

Autore: Pietro Masciullo
Pubblicato il 20/06/2009
Regia: James Gray

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