Il padre d'Italia

Fabio Mollo torna a parlare dell' (in)voluzione della figura genitoriale ai tempi della crisi perpetua del lavoro e del diritto di famiglia ...d'elezione

Il padre d’Italia, ultimo lavoro del regista calabrese Fabio Mollo, è tappa di un percorso autoriale - che ci si auspica - ancora tutto da sviscerare in quella potenziale autenticità di sguardo che ne distinse l’esordio e che probabilmente andrebbe meglio preservato già dal rischio del ripiegamento su se stesso. Evidente appare infatti l’inclinazione ad una costruzione autocitazionista, tanto per Mollo, quanto per il protagonista, l’ecclettico Luca Marinelli. Ancora e piacevolmente Marinelli canta Bertè, sia che indossi la maschera del villain (il mitico Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot) sia che vesta i panni di un uomo remissivo, segnato dalla vita, appunto Paolo de Il padre d’Italia. Marinelli torna ad incarnare i chiaroscuri della maturità, della paternità difficile da abbracciare, già affrontata in Tutti i santi giorni , dove, strana coincidenza o meno, il destino drammaturgico ancora lo vedeva far coppia con una cantante, Antonia (la cantautrice Thony) personaggio fragile, ribelle, scapestrato, come la Mia ( Isabella Ragonese, qui anche alla prova canora) del film di Mollo. Due donne in fuga dal medesimo spettro del patriarcato, quello fondamentalista del sud Italia. E dunque, per forza di cose il Sud è niente, opera prima di Fabio Mollo, che egli stesso fa parafrasare ai protagonisti in uno scambio di battute: - cosa c’è a Sud?. – Niente!. Un Niente che era già Tutto allora e che torna anche qui, capolinea di espiazione nel viaggio per l’Italia attraverso cui si dipana il film. Con il Sud è niente Mollo aveva iniziato proprio un viaggio intimo nei meandri dei sentimenti taciuti e dei segreti rimossi di una famiglia spezzata dalla perdita di un figlio sotto la mano della n’drangheta, ma anche a monte dall’assenza della figura materna, come si appresta ad essere questa nuova famiglia occasionale, poi di provvidenziale elezione. Così come alla pari già era tracciato il solco della ricerca individuale di una identità di genere, più che mero orientamento sessuale.

Il film d’esordio era infatti la parabola di scoperta e riscatto personale di Grazia, adolescente dalle fattezze e atteggiamenti androgini, a compensazione del vuoto e del dolore paterno. Mentre Paolo, apertamente omossessuale, ricaccia l’istinto d’amore dietro la chimera di una famiglia come non l’ha mai avuta, lui orfano, e come la natura biologica gli nega. Cifra autoriale si reiterano le sequenze dei fantasmi del passato che infestano i sogni, confondono verità. Eppure dinanzi alle prove attoriali di interpreti ormai apprezzati e di una sceneggiatura quasi ad effetto (co-firmata dal regista assieme alla sodale Josella Porto) quasi si rimpiange proprio la “verginità” che pervadeva l’opera prima, costruita su una attrice non professionista e sui lunghi silenzi. Segna infatti nettamente una svolta di stile, oltre al riso amaro di certi dialoghi, l’uso marcato della colonna musicale, da costante commento di sottofondo sino ad ostentata connotazione pop sulle immagini in rallenty, dilatazioni d’animo (anche troppo, come nella meno elegiaca sequenza della fuga, dopo la bravata trado-adolescenziale , che ricorda Un giorno speciale di Francesca Comencini).

Ed infine l’epilogo, che sa ancora una volta di miracoloso (allora la ricomparsa di chi si credeva morto; ora la nascita di una figlia per chi si crede socialmente e biologicamente sterile). È certo la tirannia imposta della sterilità sociale di una generazione (l’imperitura crisi del lavoro, che non tange più i protagonisti, gettatisi nella vita alla giornata) come di una cultura ( l’estremo gap dello stato di diritto di famiglia) quella sollevata dal film, programmaticamente sin dal titolo allusivo. Non è portato in scena solo il futuro anteriore dell’abbandono - almeno per ora - ma il miasma di solitudini speculari con cui uomini e donne continuano a crescere di generazione in generazione, che abbiano dovuto seppellire o meno nel profondo del proprio io l’idealizzazione di padri e madri, a loro volta incapaci, per ragioni diverse, di realizzare l’amore.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 21/03/2017

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