Il labirinto del silenzio

L'amore tra un uomo e una donna: un racconto della Germania.

Perché un uomo dimentica? Perché un popolo oscura parte della propria storia? Perché la coscienza personale è capace di chiudere la porta su un intero capitolo della sua identità? Perché la coscienza collettiva è capace di rimuove e di non vedere? Si dirà per difesa o per autoconservazione, forse perché dimenticare è più facile che risolvere, e l’irrazionalità costa meno della razionalità. Fare i conti significa invece sottoporsi alla dura pratica dell’autocritica: nessuno vuole, per scelta, porsi sul capo una spada di Damocle, pronta a cadere, trafiggere, scindere identità, sezionare convinzioni.

L’esordiente Giulio Ricciarelli con Il labirinto del silenzio pone queste coraggiose domande su uno dei periodi più critici della nostra storia. Nel dopoguerra tedesco chi non aveva visto non si fece domande, chi aveva visto aveva visto troppo e il troppo sarebbe stato insopportabile per gli uditori e insostenibile per chi aveva, per il tempo di una guerra, abiurato i propri principi etici.

Come è ben precisato nel film, il celebre processo di Norimberga del 1947 era qualcosa che nasceva fuori dalla Germania; solo il processo di Francoforte, iniziato nel 1963 e conosciuto in patria come der Auschwitz-Prozess, rappresentò la drammatica presa di coscienza dei tedeschi su quanto avvenuto nei campi di concentramento. Ma tutto ciò sarebbe forse ancora sepolto se non fosse per il procuratore generale Fritz Bauer e i suoi collaboratori, riassunti nella figura di Johann Radmann, giovane avvocato protagonista del film.

Radmann, prima di lanciarsi nelle indagini che lo porteranno allo storico processo, nella sua breve carriera si era occupato solamente di piccole cause per infrazioni al codice stradale. È in uno di questi processi che conosce Marlene Wondrak, sua futura compagna, ragazza affascinante e spensierata. Non si pensi alla solita inserzione di personaggi femminili, che spesso e impudentemente stanno nella trama solo per alleggerire il dramma, per caricare di emotività il personaggio maschile e tingere il tutto di quel po’ di rosa che possa rendere la pellicola più digeribile e adatta ad un ampio pubblico. Qui Marlene e Johann non sono una coppia qualunque, sono la Germania, la giovane Germania scissa in due. Da una parte c’è una femminilità gioiosa in cui la vita è pienezza e rinascita, dall’altra c’è una virile e strenua resistenza all’amnesia che caparbiamente vuole disseppellire e ricercare la verità anche ben sapendo di poter fare e farsi del male. Lei è lo sguardo verso il futuro, lui lo sguardo al passato e nessuno dei due può prevalere o essere ignorato. Il rapporto amoroso tra i due, portato avanti non senza difficoltà, è la storia del turbamento interiore di chi, tedesco, si chiede come indossare abiti colorati e festosi (Marlene è stilista e sarta) con tanti fantasmi alle spalle. Le due anime si inseguono, oppongono, intrecciano, respingono; laddove sono più unite e collaborative si innalzano l’un l’altra, laddove sono più distanti sono capaci del giudizio più acuto e realistico possibile. Si uniscono nella scena in cui per la prima volta Johann e Marlene fanno l’amore e lei con forza dice che «la vita è bella», quasi ad affermare la vitalità Benigniana sull’orrore. E inoltre solo con la fusione con quanto Marlene rappresenta Johann sa agire e giudicare il passato, vedendolo come qualcosa da livellare per costruirvi sopra un futuro migliore e più solido.

Il giorno prima del processo i due si riappacificheranno dopo un litigio, ma con la consapevolezza di chi sa che «lo strappo è riparato ma visibile», in un costante riferimento all’azione legale in corso.

I risultati di quel processo furono da Bauer stesso considerati fallimentari, solo meno di ottocento persone furono processate sugli oltre seimila che operarono ad Auschwitz, e il ritratto che i media ne fecero contribuì a vedere nei soli processati gli unici colpevoli, tradendo l’idea e lo spirito originale dell’inchiesta. La domanda principale era come comunissime persone avessero potuto compiere simili atrocità e come, una volta finita la guerra, fosse stato loro possibile tornare ad una vita affettiva e lavorativa come se nulla fosse accaduto. La maggior parte dei colpevoli dopo la sentenza si è sentita autoassolta, giustificata e incitata a non pensarci più. Forse «le canzonette sono più importanti del pensiero» come afferma un sopravvissuto nel film? Il diversivo prevale sull’attenzione razionale come teorizzava Adorno?

Il film si conclude abilmente nel momento esatto in cui viene aperto il processo. Dopo c’è la Storia e quello che possiamo desumere dai documenti ufficiali, per certi aspetti l’inizio di un processo che non si è davvero mai svolto o che non si è davvero mai chiuso.

Autore: Erasmo De Meo
Pubblicato il 11/02/2016

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