Il cinema di Tsai / Il gusto dell’anguria

È un cinema, quello di Tsai Ming-liang, che prosciuga il senso. Lo infrange, lo disarticola, lo altera dentro un movimento fisso, ipnotico di realtà violentemente frantumata, decomposta e ricomposta in forma-immagine, puro flusso sospeso che si espande di film in film, immenso (anti)romanzo sempre inconcluso per occhi in cerca di luce. È intransigenza dello sguardo che incide lo schermo mediante frammenti, quadri d’immagine ad andatura dilatata e a corrispondenze impossibili in un obliquo, turgido equilibrio di “verità” e finzione. Cinema che intercetta, anzi che risucchia quasi neorealisticamente, bressonianamente, corpi, esistenze, pulsioni, istanti, la vita, la morte, e al contempo contamina, tradisce, demistifica, (re)inventa. Crea fantasmi (in effetti, cosa ci può essere di più vero sullo schermo?). Assoggetta forma e racconti residuali a torsioni, confluenze, slittamenti, e qui, come a cercarlo in segreto, “chiede” allo spettatore di muoversi, lo disorienta. Per visioni da lontano. Sempre, radicali visioni ravvicinate dell’Umano.

Ora: come si colloca in questo corso, all’interno della produzione di Tsai Ming-liang, un’opera come Il gusto dell’anguria? Opera peraltro che, presentata in concorso e premiata al Festival di Berlino 2005, è riuscita a penetrare anche nelle sale italiane, sebbene penosamente spacciata dalla distribuzione per «commedia sexy e molto fruttata», definizione fuorviante oltremodo, che nulla c’entra con il film. Mettiamola così: se Che ora è laggiù? (2001) rappresenta ? come già sottolineato da Giulio Casadei proprio su Point Blank ? un turning point, l’apertura di uno squarcio nella carriera del regista malese-taiwanese, Il gusto dell’anguria, refrattario invero a ogni incasellamento di genere, allarga, slabbra ? via Goodbye Dragon Inn (2003) ? questa fenditura. E poi, materia apparentemente incontrollata, eccessiva, la riempie di sé.

Notte. Un grandangolo impressiona allucinato un corridoio sotterraneo dapprima vuoto, poi attraversato da due donne che giungono da lati opposti. Si incrociano, si sfiorano senza rivolgersi lo sguardo e procedono ciascuna nella propria direzione fino a sottrarsi al campo. Gelida, solcata nel vuoto muto horror dal rintocco automatico dei passi, la sequenza iniziale è una sorta di summa della poetica cupa del cineasta. Gia tutti qui l’isolamento, lo squallore, le distanze e le gabbie che imbrigliano, comprimono i suoi personaggi. Dopo, ancora, il montaggio, a fissare lentamente in alternanza momenti, gesti, silenzi, tempi morti perenni di due solitudini parallele, perse e ingoiate negli spazi metropolitani, nelle strade, negli appartamenti, cui sopravvivono come corpi stanchi, pesanti, esauriti. Fino al loro incontro in un parco pubblico…

«Vendi ancora orologi?», chiede lei a lui. Ecco, tardivo, (in)atteso, il fragile punto di unione, un nuovo ritorno, di fantasmi che fantasmi non sono, traiettorie ancora insondabili, in questo (para)seguito di Che ora è laggiù?, forse ancora più doloroso, per quanto intinto, a intervalli, in dolci e beffardi territori dell’assurdo, coloratissime fantasie senza liberazione, tristi fughe impossibili dall’esistente. Stessi personaggi, stessi interpreti: Shiang-chyi (Chen Shiang-chyi) è tornata a Taipei da Parigi, Hsiao-kang (il prediletto Lee Kang-sheng) non vende più orologi ed è diventato un attore porno. Cinema che riappare. E ancora cinema nel cinema, dunque. Non quello di Truffaut e Antoine Doinel/Jean-Pierre Léaud di Che ora è laggiù?, non le “ombre” formicolanti di Goodbye Dragon Inn. Perché la pornografia sta nella diegesi ma finisce inevitabilmente per tramutarsi in metadiscorso, riflessione dunque politica ed estetica (la fine del cinema? Deriva post-cinema? Nel 2009 ci sarà poi Visage…). Si incontrano, uomo e donna, in una città ora arsa dalla siccità, l’acqua è poca e le autorità promuovono il consumo di succo d’anguria come principale soluzione provvisoria. Ma il frutto diventa anche surrogato, l’oggetto del piacere sessuale reificato, enorme vulva da sfondare con le dita, da succhiare e leccare nel plastico godimento di una misera cornice hardcore domestica. Così, se l’afa assurge a simbolo evidente della tragica impossibilità dell’amore, il cocomero diventa metafora dell’eros meccanizzato, deformato qui in pornografia spoglia, dimidiata, “scoperta”, senza nessuna patina falsificatrice a schermarla, levigarla.

Nel mezzo, convivenza di cemento e di erranze solitarie, pareti e disperazione silente nella gratuità coatta dei gesti, onanismi senza gioia e scopate formato (backstage) YouPorn, fiotti di sperma in triste acrobazia e surreali siparietti musical come sogni d’amore e di sesso che trasudano criticamente kitsch, al contempo soglie di favola varcate dai protagonisti. Sogni per sfuggire all’inadeguatezza dei corpi, desiderando le nuvole (dal titolo originale all’inglese The Wayward Cloud, ossia “la nuvola capricciosa”), per poter essere come loro, farsi acqua, vita.

Ma restano solo corpi, quelli di Shiang-chyi e Hsiao-kang, anestetizzati e eterodiretti dalla sorda violenza del vuoto morale e spirituale che li attanaglia. Corpi privi di protezione, irrimediabilmente persi come tutti quelli che attraversano le pellicole di Tsai Ming-liang, che qui si incontrano, ancora, senza trovarsi mai fino a quel contatto fragilissimo, precario, doloroso, come un ultimo atto perpetuo, in un finale che possiede la stessa forza deflagrante della sequenza conclusiva (il pianto di donna) in Vive l’amour (1994). Finalmente, per poco, uno scarto, uno slancio disperato di vita e di morte, bisogno d’amore trasposto in insopprimibile urgenza erotica, liberatrice, intensa, che irrompe sull’ennesimo set hard, attraverso le inferriate di una finestra, violandolo, annullandolo. Un pompino, il pene trattenuto in bocca, liquido seminale che scende in gola, ancora lacrime. Solo corpi, altra cosa da altri fantasmi, come quello di Chloë Sevigny in The Brown Bunny (2003) di Vincent Gallo. Solo corpi, qui. Per sempre.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 10/02/2015

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