Il cacciatore

Con la nuova serie televisiva andata in onda su Rai2 e disponibile su RaiPlay, la tv pubblica punta al mercato internazionale

Che Rai Fiction stesse cercando di aggiornare il reparto seriale con produzioni e modalità di distribuzione caratterizzate da sperimentazione, innovazione e qualità, era già stato messo in chiaro da La linea verticale, serie televisiva di Mattia Torre andata in onda, con grande apprezzamento di pubblico e critica, su Rai3 e resa disponibile tutta assieme su RaiPlay all’inizio di quest’anno.

Se l’insolita dramedy diretta dall’autore di Boris narrava con amabile leggerezza l’epopea di un malato di tumore interpretato dal grande Valerio Mastandrea, l’ultimo caso, rappresentato da Il cacciatore (coprodotta con Cross Productions), segna un ritorno ad un tema molto più frequentato dagli autori televisivi nostrani, quello della (lotta alla) mafia.

Prendendo liberamente spunto dal libro Il cacciatore di mafiosi, in cui il magistrato antimafia Alfonso Sabella racconta i retroscena delle indagini su alcuni pericolosissimi malavitosi da lui dirette, la serie racconta il duro lavoro di un pm dall’identità fittizia, Saverio Barone (interpretato da Francesco Montanari, il “Libanese” di Romanzo Criminale), contro la cosca di Corleone all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Un personaggio che i creatori Marcello Izzo e Silvia Ebreul e i registi Stefano Lodovichi e Davide Marengo (autore di quel piccolo gioiellino cinematografico che è Notturno bus), scelgono di non rappresentare nella piatta luce dell’agiografia, ma nell’interezza urtante delle sue contraddizioni. Sospinto com’è, almeno nelle prime battute, da un grande senso di onestà ma anche da un certo opportunismo carrieristico, più che da un genuino senso di giustizia.

Ritratto a tutto tondo, dunque, chiaroscurale; riservato non solo ai buoni della storia – i magistrati del pool antimafia non sono immuni da nonnismo, invidia e prepotenza – ma anche ai cattivi, ai mafiosi, cui i buoni danno la caccia. Come nel caso del personaggio di don Luchino (così veniva chiamato Bagarella, cognato di Riina), esposto in tutta la sua folle crudeltà criminale (è lui ad ideare l’orrendo omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, per scoraggiare le rivelazioni di altri pentiti) ma arricchito e “problematizzato” dalle incursioni nella sua intimità famigliare e delle sue passioni, musicali in primis (la sua stessa comparsa, nella prima puntata, ha luogo nel segno della musica di Ivana Spagna).

Oltre a presentare una caratterizzazione dei personaggi ben strutturata, Il Cacciatore si fa notare per l’attenzione al comparto visivo, con inquadrature ricercate, un montaggio particolarmente serrato e coinvolgente (in cui si alternano indagini dei magistrati, malefatte dei mafiosi e momenti privati) e una fotografia diversa da quella delle produzioni televisive che hanno fatto la storia recente di mamma Rai (da Don Matteo a Il Commissario Montalbano). Oltre che per una colonna sonora coinvolgente e ben studiata.

Il risultato è uno stile carismatico, ambizioso, che non teme il confronto internazionale con il meglio della produzione europea e americana. Se n’è accorta anche Canneseries, alla sua prima edizione, che ha inserito Il Cacciatore, unica serie televisiva italiana, tra le dieci in concorso. Partecipazione che ha peraltro permesso a Francesco Montanari di vincere il premio come miglior attore.

In risposta ad altre operazioni simili (si pensi a Suburra – La serie, la prima ad essere prodotta da Netflix in Italia, ma anche all’ormai archetipico Romanzo Criminale e alla più recente Gomorra, entrambe produzioni Sky), la Rai, dunque, sembra sempre più intenzionata ad alzare il tiro, dando la luce a una crime story con un ottimo potenziale d’esportazione. Che, con la visibilità ottenuta a Canneseries e il premio a Montanaro, potrebbe finire per generare l’interesse di Netflix o di altri distributori e sbarcare presto sul mercato internazionale.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 23/04/2018

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