I miei giorni più belli

L’ultimo film di Desplechin è un toccante viaggio mnemonico tra immagini, volti e pensieri di una vita.

Com’è che dice, a un certo punto, uno dei fantasmi che popolano i labirinti mentali di Paul Dédalus, protagonista del film? Qualcosa come "Io sarò il custode dell’infanzia di cui non avrete più bisogno". Forse, più o meno così. Se si riflette su questo film interamente costruito su tracce mnemoniche, impressioni e cicatrici del tempo, ferite impossibili da rimarginare, residui di esistenza, si capirà come, quando e perché, Trois Souvenirs de ma jeunesse (che ci rifiuteremo di chiamare con il terribile titolo italiano, I miei giorni più belli) sia un film sulle rovine della nostra mente, sui ricordi come schegge improvvise che ledono i nostri circuiti cerebrali.

Si pensi al doppio di Dédalus, a sua volta alter-ego di Arnaud Desplechin. Se Dédalus è il centro motorio da cui si dipanano tutti i riflessi, allora egli è un continente, una Storia che ne contiene tante altre, un enorme, proustiano edificio del ricordo, sempre destinato a essere smantellato, raso a terra e poi di nuovo edificato. Ma qui non c’è nessun effetto nostalgia, al contrario: questi tre souvenirs - che poi sono mille di più - pulsano, vivono, respirano sullo schermo...questo è un cinema ormonale, liberissimo, un cinema che vuole rallentare l’immagine per poi elaborare split screen che hanno il sogno impossibile (e arditissimo) di riunire tutte le esistenze in una sola (e tutte le azioni, le visioni, i sogni segreti, le lacrime e i sorrisi, perfino le piccole cose, tutte insieme nella stessa immagine). Una sorta di magma intimo e dolcissimo, di flusso costante, prorompente di volti e pensieri, di voci sparse tra le mille lettere che inseguono il personaggio di Mathieu Amalric. Come se un’immagine potesse contenere tanti percorsi individuali, lasciandone le tracce durante lo scorrere del film.

Residui di materia, impronte, resti del tempo come scie della mente. Si parla tantissimo nel film di Desplechin, perché ogni cosa pare avvenire davvero, traducendosi immediatamente in azione, impulso, esitazione, sguardo o anche - perché no? - in parola. Desplechin, oggi più che mai, è tutto proteso verso una commovente opera di rammemorazione, una sorta di mappatura mentale atta a tracciare le coordinate emotive di un’intera esistenza. Del resto Trois souvenirs de ma jeunesse è un film che slitta via dal suo protagonista, che si apre a tutti coloro che lo circondano, che crea tanti altri doppi a cui prestare il proprio nome. Qui tutto si fa cinema, deviazione, parentesi, fantasma tra i fantasmi (cos’è la nostra vita passata, la nostra giovinezza, se non un souvenir spettrale sempre ritornante, ma mai ripetibile?). La vita si dispiega frammentaria tra un je me souviens e un altro, nei puntini che lasciano andare le frasi, nel "continua" impassibile di ogni esistenza, nell’incapacità banalissima (terribilissima!) di non poter fermare il tempo.

Ci è parso, Trois souvenirs de ma jeunesse, un film crudele come solo le cose più dolci, consapevole che il passato abbia finito per risucchiare il protagonista, che le strade abbiano "serrato" Dédalus, impedendogli un presente, negandogli una vita finalmente emancipata dai ricordi.

In appendice, la cosa che più ci ha commosso di queste tre cose della nostra (della loro, di ogni altra) giovinezza, è la voglia truffautiana/rohmeriana di salvare almeno un volto, un sorriso, un gesto, seppur minuscolo, dalle nebbie fittissime del tempo. Che non significa solo fermare l’immagine, ma cercare negli occhi dell’altro quel momento in cui ci si è sentiti vivi. Per l’unica volta, per l’ultima volta. E nel volto altrui ritrovare tutta la propria potenza, la propria gioia, la propria speranza, il proprio amore.

Come interpretare, del resto, la storia di un antropologo che per spiegare l’esistenza di un suo omonimo deve scavare nella sua mente e rintracciare, tra i ricordi, i resti della propria felicità? Passare dall’infanzia – quella segnata dalla morte della madre – all’adolescenza e alla maturità, alla ricerca del primo grande amore. Il punto, in fondo, è uno: qual è stato il momento in cui Dédalus è diventato un altro uomo? Quando è avvenuto questo sdoppiamento?

A ribadire tutto questo, il tempo che passa...questo senso di durata, di scorrimento inscindibile dalla perdita, dalla mancanza, dalla morte che ogni crescita porta con sé.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 22/06/2016

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