Honeymoon

Tra dramma psicologico e body horror, l'esordiente Leigh Janiak distrugge le certezze della vita coniugale in un piccolo ma solido film indipendente

Costruire un orrore strisciante, paranoico e ossessivo che scardini la tranquillità della vita di coppia e le ipocrisie della convivenza non è impresa facile né tanto meno originale. Lo sa bene l’esordiente regista Leigh Janiak che con l’anomalo horror psicologico Honeymoon confeziona un prodotto capace di guardare al passato e a un filone decisamente prolifico senza inciampare, per questo, nel facile rischio di farsi trita copia, sbiadita riproposizione di un immaginario logoro, riuscendo a mantenere una specificità di sguardo in grado di non gettare nell’inutile calderone del già visto una storia dove il senso di déjà vu è sempre dietro l’angolo.

Bea e Paul sono due giovani sposi in procinto di passare la loro luna di miele nell’intimità bucolica della piccola casa tra i boschi dove Bea trascorreva le estati della sua infanzia. Ma qualcosa è in agguato tra i sentieri deserti e l’imperturbabile calma delle acque del lago dietro casa. Qualcosa che osserva, che rende sospetti i comportamenti dei pochi abitanti del luogo e che, di notte, fuori dalla finestra, stordisce le coscienze con misteriosi fasci di luce. Un mistero terribile che ben presto Bea scoprirà vagando, nuda e sonnambula, nei boschi, ma che terrà nascosto al marito (e al pubblico), recitando una parte sempre più difficile da sostenere.

Quanto veramente si può conoscere una persona? Questo si chiede esplicitamente Honeymoon tra silenzi, menzogne e situazioni via via sempre più inquietanti e paradossali mentre un rapporto e un intero sistema di valori vengono messi in crisi e fatti deflagrare sotto i colpi di una minaccia impalpabile e perturbante.

Immagine rimossa.

È difficile, oggi, giocare consapevolmente e senza ironia con un materiale tanto utilizzato, rifuggendo il rischio di eccessiva prevedibilità che un soggetto del genere inevitabilmente si porta appresso. Dopo il lapidario e geniale Quella casa nel bosco, deriva metacinematografica di Drew Goddard (e Joss Whedon), persino la location e tutti gli orrori annessi paiono una sfida coraggiosa per il film della Janiak. Eppure Honeymoon non cade in facili trappole, non si perde nell’ovvietà dei suoi rimandi o dei suoi colpi di scena, ma focalizza tutta l’attenzione, piuttosto, su un sentire fortemente empatico ed emozionale, su un ritmo e una messa in scena capaci di valorizzare volti, sguardi e sentimenti in una calibrata degenerazione dove la quotidianità fa, lentamente e quasi inavvertitamente, spazio alla follia.

Mentre i misteri aumentano, le menzogne si infittiscono e i comportamenti degenerano, tra lontani(ssimi) echi dell’immancabile Polanski di Rosemary’s Baby o dello Zulawski di Possession, Honeymoon dimostra di saper usare, con tocco consapevole e misurato, una materia esplosiva senza troppe pretese, confezionando un piccolo prodotto impeccabile nella costruzione di un mistero senz’altro prevedibile ma messo in piedi, tassello dopo tassello, bugia dopo bugia, orrore dopo orrore, con indubbio mestiere e disturbante rigore.

In un climax lento ma inesorabile, il tremendo e sentito disfarsi dell’idillio coniugale dei due protagonisti, complice la facile identificazione con i due ottimi, affiatati interpreti (la Rose Leslie di Game of Thrones e Harry Treadaway di Penny Dreadful), si fa emblema delle paure più elementari e concrete della nostra realtà emotiva e relazionale fino a traghettare uno psicodramma da camera verso i confini di un orrore finale dal gusto fortemente cronenberghiano, in una deriva sci-fi insostenibile e crudele come solo l’amore tradito sa essere.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 07/01/2016

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