Halt and Catch Fire

La nuova serie targata AMC conferma con i suoi primi episodi la qualità della rete a cui già dobbiamo Breaking Bad e Mad Men

Nuova produzione AMC, sicurezza di serialità dalle tinte forti e dalle trame profonde; Halt and Catch Fire eredita gli archè della casa di produzione newyorchese. A partire dalla fotografia che non lascia troppo spazio a colori vivaci, dominata dalle tonalità verde-marroni che hanno fatto scuola in Breaking Bad e The Walking Dead, per arrivare allo storytelling, tematiche adulte tutte incentrate sulle multi-personalità dei protagonisti. Ma andiamo con ordine.

E’ il 1983 e ci troviamo da qualche parte fuori Dallas, un deserto reso abitabile da sobborghi costruiti con casette identiche, dove le società di elettronica si ammassano dando alla zona il soprannome di Silicon Prairie. Gordon (Scott McNairy) e Donna sono due ingegneri informatici con due figli, una vita passata assieme ed una crisi matrimoniale all’orizzonte. Gordon lavora per la Cardiff Electric, piccola compagnia informatica che si ritrova a soffrire le pene dell’inferno, in un mercato dominato dall’IBM e dall’imminente genio di Bill Gates. La vita di Gordon e della Cardiff viene rigirata come un calzino dall’arrivo di Joe MacMillan (Lee Pace), project manager intenzionato a rivoluzionare il mercato ed il mondo dei computer. Joe MacMillan è uno schizoide, un visionario pioniere senza senso del controllo, ed il rapporto con Gordon è antitetico e giocato sull’impossibilità di comprensione trai due. MacMillan arriva dall’IBM e si porta con sé il codice del BIOS della società, violando le regole e rischiando grosso. Ma è quello che serve per dare il via all’impresa: creare un pc più veloce e più piccolo. Ed in questa crociata MacMillan ci butta Cameron Howe (Mackanzie Davis), una programmatrice giovanissima, rabbiosa e bella quanto capace di programmare codici.

I tre protagonisti hanno una solida caratterizzazione, il che permette di essere sviscerati nell’intimità delle loro esistenze, così diverse da dare la possibilità ad ogni puntata di avere tanto da dire non solo sulla questione informatica… anzi. L’impressione è che il lato tecnico, quello prettamente tematico, sia una sorta di scusa. Il tema trattato è volutamente quasi noioso. I tecnicismi volano e sono spesso duri da digerire, antipatici, come se richiedessero una seconda visione. Non siamo nel Silicon Valley dell’HBO, dove anche l’innocente web addicted può godere di una trama dove tutto è volutamente comprensibile. Lo spettatore medio rifugge nel godimento delle vite private degli abitanti di un mondo irreale, da sogno. La fotografia da questo punto di vista non fa scherzi. Vi ricorderete di quei momenti di psicotropia visiva in Breaking Bad, quel primo minuto all’inizio di ogni puntata: aveva lo scopo di allacciare le cinture di sicurezza al pubblico e portarlo nel New Mexico, terra ai confini dell’Occidente. Halt and Catch Fire produce questo senso di viaggio per tutta la puntata, in sordina. In questo è colpevole, Joe MacMillan, come già detto personaggio schizofrenico, ma soprattutto oscuro. Il suo corpo è attraversato da cicatrici di cronenberghiana memoria, che sfrutta per impietosire Gordon in una delle scene più belle della terza puntata. Ma sappiamo anche che Joe è un bugiardo patologico, e che è sotto tutti gli aspetti verbali l’eroe tanto temuto da William Burroughs: “From symbiosis to parasitism is a short step. The word is now a virus. The flu virus may have once been a healthy lung cell. It is now a parasitic organism that invades and damages the central nervous system. Modern man has lost the option of silence “ (The Ticket That Exploded, 1962).

Joe è un incredibile bugiardo, re delle parole-virus, in grado, con quelle, di uccidere il mondo antico e di costruirne uno nuovo, più veloce, bello e più pericoloso. Il senso di oppressione è vivo anche in Gordon e Cameron. Gordon ha una famiglia che non è in grado di gestire, soffre la presenza paternalistica ed invadente del genero, imprenditore dell’elettronica, padre di una bellissima figlia che probabilmente si meritava, ad occhi suoi, un uomo migliore. Nella la quinta puntata, The Adventure, in Gordon rivive l’ombra del primo Walter White, incapace conservatore al quale bisognerebbe far vedere il baratro per dargli una potente scossa vitale. Non c’è il cancro in questo caso, ma per tornare al discorso malattie, Joe porta con sé il virus della parola. Cameron, nonostante una puntata pilota che la presentava solo come un’infantile ragazzina, trai tre si scopre il personaggio più positivo. Lo penso perché credo sia l’unica ad avere una sorta di linfa vitale,che tenta di far presa nei momenti in cui Joe e la Cardiff Electric impongono l’alienazione aziendale. La biondina pare derealizzarsi quando si mette ad ascoltare a tutto volume musica hardcore alle cuffie, o quando evita il lavoro per installare videogiochi sui computer della società. In realtà sta fuggendo verso il mondo reale o, sarebbe meglio dire, lo stereotipato mondo reale degli anni ottanta: quello degli skaters, dell’adolescenza DIY e delle droghe.

AMC, come con Breaking Bad, The Walking Dead e Mad Men sta riscrivendo il vangelo americano. Manipola come plastilina il canone ormai eterno nato con i romanzi di Fenimore Cooper, la mitopoietica nazione per eccellenza che si è plasmata con le conquiste. Si è creata così una mappa spazio-temporale con tutti gli ingredienti: la magia allucinatoria e sacrale delle droghe di Breaking Bad, dove la sparatoria e l’assalto al treno tornano prepotentemente, in una terra senza leggi; l’infernale Far West nel quale vaga il cowboy Rick Grimes; l’americanizzazione del mondo in nome del capitalismo della società dei consumi; ed ora, senza lasciare troppo adito al buonismo, l’AMC narra della fondazione del nostro presente e soprattutto futuro, la società informatica, in preda alle visioni di un patologico signore della parola.

Autore: Diego De Angelis
Pubblicato il 07/08/2014

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