Good Kill

Niccol realizza un film coraggioso e difficile, come sempre ancorato alla convenzionalità del genere ma capace di guardare ad uno dei temi chiave del mondo contemporaneo.

Da una piccola scatola di metallo nel deserto del Nevada alle colline dell’Afghanistan, 12mila chilometri superati in un secondo, nella microscopica differita di un click che diventa impulso elettrico ed onda elettromagnetica.

DPTS significa Disturbo da stress post-traumatico, e riguarda com’è noto le conseguenze psicologiche dovute all’esperienza di un evento traumatico di qualche tipo. La parola chiave nel DPST è “post”. Perché quando bombardi talebani dalla console di una scatola di metallo a pochi chilometri da Las Vegas e poi ritorni a casa, non esiste più un post, un dopo oltre l’evento. Con la guida dei droni da combattimento esercitata direttamente in patria (anche se non tecnicamente, l’ipocrisia dei regolamenti vuole che l’interno delle scatole non sia terreno americano) la guerra perde la sua alterità spazio-temporale, non diventa più un accadimento esterno collocato in un altrove lontano, o neanche una reazione disperata ad un’aggressione casalinga. E’ un lavoro da scrivania, un appuntamento impiegatizio mattina-sera, cena con la famiglia e vita coniugale. Non più post, ma qui ed ora.

All’inizio di Good Kill il pilota interpretato da Ethan Hawke compie la sua missione e torna a casa. Il deserto che circonda la base militare non è quello afgano ma il nulla in mezzo al quale è stata eretta Las Vegas, patria dell’artificiale e della finzione. In un efficace movimento a ritroso Andrew Niccol inganna da subito lo spettatore, spaesato nel vedere il soldato uscire dalla base e ritornare in macchina alla civiltà, alle bibite comprate al distributore e al barbecue organizzato per una cena in famiglia. Ancora una volta il cinema di Niccol punta a stupire dai suoi primi minuti, mettendo subito in campo il suo discorso retorico con artifici palesi e di immediata lettura. L’ambientazione di Las Vegas infatti rilancia la virtualità posticcia ed a-esperienziale di una guerra combattuta tramite uno schermo, di uccisioni effettuate con i comandi di un joystick. Prendendo di petto uno degli argomenti più scottanti e controversi degli ultimi anni, l’uso di droni in guerra, Niccol realizza con Good Kill un film coraggioso e difficile, come di consueto nel suo cinema foriero di spunti e potenzialità ma anche appesantito da alcuni limiti di struttura.

Inchiodato al terreno come membro di spicco del programma droni, il protagonista di Good Kill anela il volo e l’adrenalina del combattimento. Ai comandi di un complesso videogioco piuttosto che di un caccia, vive la smaterializzazione dell’atto bellico come un vero trauma, alimentato dal chiasmo impossibile tra l’immagine digitale da una parte, e la carne e il sangue e le urla dall’altra. Con i droni gli obiettivi degli attacchi diventano pixel in movimento, si congelano in una dimensione a-sensoriale il cui distacco dalla realtà cresce paradossalmente proprio per il suo costante contatto con essa al di fuori dello scontro.

In questo senso Good Kill diventa il controcampo ideale di The Hurt Locker, il soldato congelato e atomizzato di Ethan Hawke è l’esatto opposto di quello interpretato da Jeremy Renner. Ne sogna anzi la vita, l’adrenalina, l’esperienza fisica sul campo, nel quale si vive o si muore in base a scelte istantanee. Entrambi i personaggi vivono il conflitto come necessità di azione presente, la quale viene appunto negata al protagonista di Niccol da una digitalizzazione che ne fa mera appendice di una strumentazione elettronica, parte atomizzata di un ingranaggio che non può essere vissuto che nei termini dell’alienazione. E quando la smaterializzazione dell’atto diventa assoluta si arriva lontani soltanto un click dal poter diventare giudici, giuria e boia.

E’ questo contrasto il grande valore di un film come Good Kill, che cerca di raccontare l’equivalente bellico dei nativi digitali calando il suo discorso innovativo all’interno di una più convenzionale cornice narrativa. Il personaggio di Hawke infatti vive la consueta parabola del cinema americano, dimostrando l’intenzione di Niccol di approcciarsi al discorso bellico attraverso i solidi binari del genere. Siamo lontani dagli esiti di uno Zero Dark Thirty, ma del resto il cinema di Niccol è sempre stato uguale a sé stesso. Nasce da grandi idee basate su metafore lapalissiane per evolversi poi in un racconto lineare, a volte non all’altezza, ancorato a stilemi narrativi fin troppo noti e poco affidato all’immagine in sé.

Ma questo è comunque il fascino del suo cinema, solidamente narrativo, d’intrattenimento e capace di rivolgersi ad un grande pubblico anche se a discapito di raffinatezza e spessore. Il risultato è un film che non approfondisce come potrebbe questo eccezionale occhio che uccide, protesi orwelliana di powelliana memoria fondata su un voyerismo spionistico non privo di ridondanze hitchcockiane. A Niccol non interessa la strada dell’esplorazione linguistica dell’immagine, e in mani di altri questo Good Kill sarebbe potuto diventare davvero un grandissimo film.

Il risultato è comunque un’opera coraggiosa e valida, capace di portare per la prima volta sullo schermo un soldato diviso tra l’uccisione di un terrorista e i figli da prendere a scuola. E questo vale e giustifica tutto il resto.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 05/09/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria