Ghesseha (Tales)

Un'opera delicata e schietta che racconta piccoli pezzi di vita in un paese travolto dalla crisi econimica

La vita è piena di incontri casuali, lunghi il tempo di un’occhiata: nella quotidiana abitudine di pensare solo a se stessi , gli altri appaiono comparse sul nostro percorso, di nessuna importanza rispetto ai propri pensieri, ma ogni vita è un mondo a parte, e se solo potessimo leggere le storie di chi sta in fila davanti a noi alla posta, o siede nel sedile dietro al nostro sul tram, saremo colpiti dalla varietà di racconti personali che ognuno porta con sé. Concepito come una staffetta narrativa, Ghasseha (Tales) di Rakhshan Banietemad non si concentra su un solo personaggio, ma a partire dal primo che appare sullo schermo si sofferma brevemente sulle esistenze che incrociano per un minuto o un’ora la la stessa strada. Un autista che incontra un’amica di infanzia, le lunghe attese frustranti negli uffici statali, un centro di recupero, e la medesima miseria sociale ed economica di fondo. Rakhshan Banietemad racconta l’Iran frantumandone la superficie con una macchina da presa che ruba da ogni frammento il senso di un dramma collettivo, fatto di povertà, repressione politica e diffusione a macchia d’olio della dipendenza da eroina. Un macrocosmo che si riflette in minuti, anonimi microcosmi. Lo stato che domina prepotentemente il popolo regna su individui che hanno appreso la sopraffazione dell’altro come unico mezzo di sopravvivenza.

La questione politica iraniana è anche una questione di relazioni individuali basate sull’evidente disparità presente fra i singoli. Il forte travolge il piccolo, il ricco ignora il povero, il marito pretende assoluta dedizione e sacrificio dalla moglie; la droga è l’unico mezzo a disposizione per trovare pace in un’esistenza tanto difficile. In Ghasseha (Tales) c’è una grande pietà per i personaggi costretti a indossare un ruolo ogni giorno per proteggersi dagli assalti del mondo; esseri deboli che aggrediscono esseri ancora più deboli per difendersi, facendosi forza delle briciole di potere che sono riusciti a conquistare. Gli uomini sublimano la fragilità facendosi forti della superiorità sessuale che società e governo hanno attribuito loro, gli impiegati statali esibiscono la loro noia di fronte ai cittadini che dopo una lunga attesa si vedono sbattere la porta in faccia, si reprimono con le minacce tutti i tentativi di protestare o documentare lo stato del paese. Il cinema serve qui a superare le barriere delle persone barricate dietro muri di freddezza, per rivelarle in tutta la loro pietosa paura di soffrire: l’opera di Rakhshan Banietemad toglie la maschera e scopre uomini abbrutiti dalla crisi economica, umiliati per il ruolo sociale di scarso rilievo che la povertà ha loro assegnato, incapaci di esprimere la loro paura di perdere gli affetti più cari se non con lo scontro, fermi tra la voglia di combattere le ingiustizie e la paura di subire per questo maggiori ritorsioni dai potenti. Non che le persone più autorevoli riescano a essere più felici, ridotte come sono a godere unicamente della limitata influenza che possono esercitare – preferendo accentuarla con l’altrui umiliazione ¬– ma come tutti sottoposti a superiori più potenti cui devono forzatamente prostrarsi.

Lo sguardo di Ghasseha (Tales) per quanto amaro non vuole però costringere l’umanità in una visione esclusivamente negativa. La pietà nasconde l’affetto, un’empatia per la miseria dell’uomo e il bisogno di amore che vi si nasconde: in un ultimo splendido frammento, una conversazione fra un uomo e una donna, ognuno in assetto da guerra, pronto a ribattere e attaccare l’altro, riesce a sfociare con molto sforzo in un dialogo sincero, spaventato, vulnerabile, fermando sullo schermo quel momento fondamentale in cui due individui scelgono di aprirsi e rivelare tutta la propria terrorizzata verità. E’ un attimo da voler mettersi a piangere per la tenerezza di una battaglia momentaneamente interrotta, una sequenza che definisce una grande voglia di fare un cinema sincero, disincantato ma sensibile: un inaspettato contatto che fa fiorire un giardino nel perenne deserto dell’animo umano.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 28/08/2014

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