Game of Thrones (Il trono di spade) - Stagione 7

Metamorfosi di una serie tv, specchio fedele della contemporaneità.

Sette anni di vita sono tanti per un prodotto televisivo seriale, specialmente in quest’epoca e specialmente per una serie tv che ha fatto dei colpi di scena e dello sviluppo narrativo originale la propria forza, sulla quale ha costruito un pubblico in crescita continua lungo tutto l’arco della messa in onda.

Game of Thrones – Il trono di spade in questi sette anni è passata dall’essere un prodotto molto seguito da appassionati dei libri di George R. Martin, delle serie e del fantasy in generale, all’essere il drama-evento per eccellenza, probabilmente il più scaricato al mondo – anche se per quanto riguarda gli ascolti veri e propri i numeri sono altissimi per il via cavo ma ben lontani da quelli di colossi broadcast come NCIS e Friends.

La crescita esponenziale degli spettatori significa che Game of Thrones è seguita ormai anche da un pubblico lontanissimo rispetto a quello di riferimento della propria rete (per la HBO è il primo e forse resterà l’unico fenomeno globale di questa portata) e così variegato da non essere neppure rappresentativo del pubblico appassionato di serialità televisiva: quello di GoT è ormai un pubblico TELEVISIVO tout court, al cui interno convivono target così differenti da essere probabilmente impossibili da accontentare con un unico show.

Dalla prima stagione a questa settima, quindi, la serie è passata da prestigioso esperimento a successo globale, ha cambiato il proprio pubblico e – fattore ultimo, ma non meno importante – si è dovuta spingere ben oltre rispetto alla trama del materiale di partenza (quella saga a cui mancano ancora ben due capitoli), perdendo il supporto dello stesso Martin e quindi lasciando il compito di chiudere una storia così redditizia ai soli showrunner Benioff e Weiss.

È difficile quantificare quale, tra tutti questi fattori, abbia influenzato maggiormente la metamorfosi dello show, iniziata intorno alla quinta stagione per palesarsi poi in tutta la sua chiarezza in questa settima, ma la perdita della “guida” di chi ha concepito il materiale originale ha senz’altro dato una spinta decisiva alla riscrittura di un mondo: Game of Thrones non sta soltanto scrivendo un proprio finale, indipendente rispetto alla saga letteraria, sta anche modificando la propria visione e il proprio approccio nei confronti dei personaggi e del plot in generale.

Sintomatica di questo cambiamento di rotta è la decisione di tagliare la stagione a solo 7 episodi: in uno show che ha sempre fatto dell’approfondimento psicologico, dell’attesa, dei giri a vuoto per accrescere la tensione la propria cifra di distinzione, diminuire in lunghezza poteva significare soltanto poco materiale da raccontare, o poca capacità di svilupparlo coerentemente rispetto al passato. Il materiale è senz’altro poco – da decine di personaggi iniziali siamo rimasti a una dozzina o poco più, ciascuno costretto a trovarsi spazialmente in convivenza con altri, il che si traduce in meno mondi da raccontare e meno sottotrame possibili – ma da questa settima stagione è impossibile non dedurre che è anche poca la capacità, o il desiderio, di arrivare alla fine della serie mantenendo lo stesso stile.

Non è sicuramente il primo caso di contrasto di visione tra showrunner e scrittori (che in televisione generalmente si conclude col prevalere dei primi) ma è senz’altro il più contemporaneo ed eclatante. Benioff e Weiss, con le mani libere, stanno creando uno show completamente diverso da quello che era, privilegiando il fandom e la spettacolarità rispetto a quelle caratteristiche che avevano fatto di Game of Thrones, nel bene e nel male, uno show unico nel suo genere, che non aveva paura di deludere le aspettative e spezzare il cuore del pubblico, i cui eroi erano fragili e molto umani, nel quale il tempo scorreva lento, molto più simile alla vita reale che a un blockbuster.

Intendiamoci, questo cambiamento non rende necessariamente GoT una serie peggiore, perché in termini di ritmo, regia, effetti speciali e capacità di meraviglia (e anche, cosa non meno importante, soddisfazione del pubblico più ampio) non c’è stata stagione migliore, finora.

Quella lentezza e quell’incapacità di arrivare al punto perdendosi in mille rivoli narrativi che tanti giudicavano pesanti – così tipiche del fantasy però, attenzione – sono scomparse in favore di una trama che arriva dove deve arrivare, forse in modo più prevedibile ma sicuramente, in termini televisivi, più efficiente. Tuttavia quelle che potrebbero sembrare sterili polemiche, come quelle sul superamento dei limiti fisici da parte dei personaggi, sono inutili in termini di giudizio qualitativo ma svelano moltissimo della nuova natura dello show e soprattutto dimostrano come il pubblico seriale più affezionato sia ormai così educato alla visione da non farsi sfuggire il mutamento radicale dell’oggetto mediale che ha di fronte.

Un oggetto mediale che forse non ci porterà alla miglior conclusione possibile (ma d’altronde, sarebbe impossibile incontrare il favore unanime di un pubblico così variegato, tra cui ci sono per la maggior parte spettatori molto meno smaliziati), ma che resta un esperimento unico nel suo genere, che trascende la distanza tra “alto” e basso” portando la filosofia della cable tv a numeri quasi generalisti e tentando di fare i conti con un enorme successo commerciale forse più inaspettato del previsto.

È notizia di pochi giorni fa la colossale lavata di capo che Jeff Bezos di Amazon ha riservato ai capi di Amazon Prime Video, intimando loro «Give me Game of Thrones», e nessuna frase più di questa potrebbe testimoniare l’enorme valore che per una rete di nicchia può avere una serie così amata dal pubblico, e quanto sia spietata ormai la gara per occupare quel posto che tra un anno GoT lascerà vacante, nei cuori e nelle serate degli spettatori televisivi.

Alla luce di queste dinamiche, che vanno ben oltre la coerenza narrativa o la capacità degli showrunner, è difficile esprimere un giudizio di valore su questa settima stagione: deludente, prevedibile e poco incisiva da una parte, appassionante ed efficiente dall’altra, è il simbolo della volontà di HBO di tenersi stretto il pubblico che ha conquistato in questi sette anni, dandogli fondamentalmente e ancora, nel bene e nel male, ciò che vuole.

Per concedere al pubblico il finale agognato, ciò che lo terrà legato non solo alla prossima stagione ma ai successivi spin-off in preparazione, HBO ci ha dato Jon e Daenerys innamorati, un drago che sputa fuoco blu, eroi impossibili da uccidere e cattivi che finalmente fanno la fine che meritano. E soprattutto, ci ha dato la stagione più chiacchierata della sua storia, garantendosi la sicurezza di trovarci incollati allo schermo anche l’anno prossimo; a conti fatti, sarebbe difficile definirlo un fallimento.

Autore: Eugenia Fattori
Pubblicato il 10/09/2017

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