Fuorigioco

Il racconto di un licenziamento improvviso e ingiustificato apre la riflessione sulle spietate dinamiche psicologiche, sociali e culturali che caratterizzano il nostro presente.

Un manager d’azienda di mezza età viene licenziato in tronco e vede improvvisamente spalancarsi di fronte a sé un abisso fatto di noia e solitudine. In quello che in breve si trasforma in un vero e proprio senso di vuoto esistenziale, logorante e soffocante, le giornate gli appaiono di colpo monotone e tutte uguali e ogni cosa diventa presto insensata, priva di uno scopo. Il tempo sembra dilatarsi e nutrire pensieri sempre più pesanti e deprimenti, che inquinano ogni istante di una quotidianità vacua, snervante, opprimente. Se è vero che il valore e la dignità di un uomo non possono prescindere dal suo ruolo nella società, dal suo lavoro, allora il protagonista – che si sente completamente azzerato, imbrogliato, abbattuto - comprende man mano di camminare sull’orlo di un baratro: se guarda in basso non vede altro che violenza e follia, pericolose pulsioni alle quali rischia di abbandonarsi, imboccando una strada forse senza ritorno. Del resto, il contesto che ha attorno non può o non riesce ad arginare la disperazione e la rabbia che lo tormentano: l’affetto della moglie lo tocca solo fino a un certo punto, e gli amici e i colleghi che sembrano più forti, calmi e ragionevoli di lui si dimostreranno infine altrettanto disorientati o inclini a reazioni estreme e drammatiche. Sua unica evasione sarà osservare in modo sempre più ossessivo una vicina di casa giovane e attraente. Ma anche in questo caso il protagonista non riesce a depurarsi dalla negatività che lo schiaccia: il limite tra il desiderio e il sogno da una parte, e l’incubo e la tragedia dall’altra si rivela terribilmente sottile.

Carlo Benso, regista teatrale e cinematografico, condensa e palesa nel titolo programmatico del suo film Fuorigioco lo stato d’animo che letteralmente demolisce l’ego del suo protagonista Gregorio Samsa. Per questa figura di uomo sconfitto viene preso in prestito un nome importante – che cita le Le metamorfosi kafkiane – chiarificando così, immediatamente, le coordinate entro cui questa descrizione prende forma: quelle dello scacco esistenziale totale, dell’inadeguatezza più assoluta, dell’angoscia più profonda. Ma il regista sceglie di piegare il discorso entro un quadro sociale specifico, attualissimo, bruciante, quello cioè dell’Italia della crisi economica, della corruzione, della disonestà, dell’affossamento dei valori civili e della cultura in senso lato.

Dal punto di vista tematico dunque il film non manca certo di spessore e di sostanza, anzi avrebbe tutte le carte in regola per colpire nel segno, eppure sul piano specificamente cinematografico sono diversi gli aspetti a ben guardare irrisolti e poco convincenti. A cominciare dalla recitazione: le performance degli attori palesano un’impronta teatrale e/o televisiva, una rigidezza e una artificiosità che, particolarmente in alcuni passaggi, diventano impossibili da ignorare. Si avverte in sintesi una certa mancanza di naturalezza, forse anche a causa di dialoghi che, seppure condivisibili nel loro assunto e nel loro contenuto, suonano tuttavia letterari, poco spontanei, come cristallizzati. E tuttavia imputare queste carenze direttamente agli interpreti non sarebbe corretto: ciò che stride, in questo caso, sembra infatti il frutto di un insieme di concause, di una difficoltà di coordinamento, di una falla nell’equilibrio complessivo del film, che si manifesta anche in certe sequenze che nel complesso si percepiscono come forzate e poco credibili. E’ un peccato, perché la riflessione che sembra guidare le intenzioni del regista è non solo apprezzabile, ma anche necessaria e urgente alla luce della congiuntura storica e sociale che caratterizza il nostro presente.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 05/07/2015

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