Flying Swords of Dragon Gate

Tsui Hark ritorna sul luogo del delitto, su quel New Dragon Inn che lui stesso produsse nel 1992 per la regia di Raymond Lee, guardando all’immortale Dragon Inn di King Hu del 1966. Altri tempi, quei primi anni novanta, quando la new wave hongkonghese era ancora lungi dall’estinguersi e il discrimine tra lo Tsui regista e quello produttore era flebile, esilissimo, quasi inesistente. Rifare un classico nel 2011 significa però guardare innanzitutto al presente, proiettando il wuxia direttamente nell’immaginario popolare contemporaneo, per poi trasfigurarlo nel ponte ideale tra passato e futuro. Da qui la scelta del 3D, quindi, per la prima volta nella storia del cappa e spada orientale: forte di questa idea di sperimentazione, e con un budget di 35 milioni di dollari alle spalle, Tsui Hark può finalmente imbarcarsi nell’impresa di Flying Swords of Dragon Gate. Che non è affatto, a guardare bene, il remake dei due titoli citati poc’anzi. Piuttosto, la sceneggiatura (dello stesso regista) sembra partire dagli spunti del passato per reinterpretarli sotto forma di seguito, nonostante – anche qui – la definizione possa sembrare ardita e parzialmente scorretta.

Il film è quindi la rivisitazione moderna di un immaginario fortemente radicato all’interno della cultura popolare cinese, nel quale gli elementi che stanno alla base del genere (i combattimenti, i voli, gli intrighi e i tradimenti) vengono utilizzati più per il loro valore iconico piuttosto che per quello prettamente legato agli sviluppi del plot. Perché il susseguirsi di eventi comunemente detto trama, in Flying Swords of Dragon Gate, deve rimanere davvero l’ultima delle preoccupazioni. Poco importa quindi della vicenda dello spadaccino Zhao Huai An, paladino del popolo in contrasto con il malvagio Comandante Yu, e della ricerca della locanda che dà il titolo al film, luogo misterioso e intriso di magia: in questo susseguirsi di colpi di scena, intrighi, tradimenti e storie d’amore, la fluidità del racconto è una chimera persa tra i meandri di una narrazione frammentata e confusa, all’interno della quale lo spettatore meno avvezzo a questo tipo di cinema si perderà facilmente senza possibilità di rimedio. Ma è meglio così. Flying Swords of Dragon Gate è un film che non sa mai quando fermarsi: non lo fa quando si protrae all’infinito durante le interminabili diatribe tra i personaggi, e neppure durante i duelli meravigliosamente coreografati nonostante l’utilizzo della CGI (qua però meno invadente rispetto ad altre volte).

Cosa pensare quindi di un cinema in grado di sposare alla perfezione la componente umana a quella digitale, capace persino di un combattimento aereo all’interno di un tornado di sabbia? Un cinema capace di mostrare il sangue, la polvere, la terra, e nonostante ciò di librarsi per aria attraverso quella sottilissima grazia che soltanto un maestro come Tsui Hark può annoverare. Dai titoli di testa pensati esplicitamente per il 3D (con la macchina da presa che “attraversa” le navi del porto, con un movimento aereo dall’alto verso il basso), fino alla carrellata all’indietro che anticipa quelli di coda, il regista non smette mai di pensare a questo suo mezzo cinema come ad uno strumento tutto personale tramite il quale continuare ad esplorare lo spazio circostante: attraverso i corpi innanzitutto, vere e proprie piume d’oca attraverso le quali tingere d’inchiostro lo schermo bianco, e attraverso uno sguardo bilaterale sulla stereoscopia dell’immagine, utilizzando la cinepresa come strumento indagatore dell’inquadratura sotto qualsiasi suo aspetto. Entrando ed uscendo dal rettangolo luminoso con una libertà e una padronanza stilistica con pochissimi eguali nel pianeta. Libertà che quindi si traduce anche nell’assoluta mancanza di timore reverenziale nei confronti del classico e del passato, poiché la dimensione ludica di Flying Swords of Dragon Gate si trasforma istantaneamente in pura anarchia della visione e della messa in scena. Nulla di nuovo per il cinema di Tsui Hark, al quale probabilmente non interessa più di superare sé stesso: ma ogni volta è capace di dimostrarsi perfettamente a proprio agio nell’arte del linguaggio e dell’abbattimento dei limiti fisici. In una parola sola, nel Cinema.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 10/02/2015

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