Fast and Furious 7

di James Wan

Quello di Fast and Furious è oggi il migliore e più autentico cinema d’azione hollywoodiano, un'evidenza confermata e rilanciata da questo settimo capitolo.

Fast furious 7 - recensione film

Difficile capire cosa sia diventato oggi il cinema action. Nato come fratello minore del poliziesco anni Ottanta, il genere non ha fatto in tempo a definirsi tale che ad Hollywood è deflagrata una contemporaneità all’insegna dell’azione, che all’aumentare della velocità del montaggio ha moltiplicato il ricorso all’adrenalina in gran parte delle sue produzioni. E’ raro oggi assistere a un film hollywoodiano di genere che non abbia subito questo tipo di iniezione muscolare. Solo l’horror ha mantenuto la sua identità e il permesso di conservare una certa assenza di azione, in parallelo cinema di spionaggio e poliziesco, thriller e noir sembrano non farsi strada all’interno degli studios se non presentano almeno un certo tasso di adrenalina.

Tornando all’action è difficile dunque ritrovare uno spazio autonomo per questo cinema a fronte di una tale contaminazione. Specie perché, nonostante sembri il contrario, questo genere è il risultato di uno studiato bilanciamento dei suoi elementi: un’alchimia di credibilità interna e noncuranza del realismo e delle leggi fisiche, un’autoironia costante che non sfocia tuttavia in alcun sberleffo o ammiccamento, una reinvenzione costante dell’azione a fronte di una pedissequa fedeltà alla tradizionale struttura narrativa. E’ in questa situazione di assedio, in cui la scena blockbuster è dominata da cinecomic e robottoni, che si colloca con sempre maggiore consapevolezza la saga di Fast and Furious, che con questo settimo capitolo conferma quel trend positivo che l’ha trasformata nel migliore e più autentico cinema d’azione hollywoodiano di oggi.

Impossibile non guardare a questo cinema di giganti in lotta tra loro senza pensare agli anni Ottanta, a quel mix di violenza stilizzata, ironia e sete di spettacolo da cui appunto nasce il cinema action. E di tale tradizione Fast and Furious è davvero l’erede più autentico, almeno all’interno del sistema dei blockbuster. Il segreto della riuscita della saga sta in questo, nella sua capacità crescente di recuperare quel cinema esagerato, muscoloso ed esplosivo senza però rinchiudersi in una dimensione nostalgica (malinconica o ammiccante che sia, come nei primi mercenari di Stallone) ma anzi guardando costantemente avanti, in un rilancio continuo che dimostra una capacità di scrivere l’azione che ha del sorprendente (si pensi alla lunga sequenza centrale, in cui al film bastano una strada di montagna, alberi e una manciata di macchine per creare spettacolari coreografie). Ecco spiegato allora il crescente ricorso al digitale e alla distruzione urbana, così evidente in questo Fast and Furious 7 ma che tuttavia non diventa mai il cuore autentico del film. James Wan, nuovo regista della saga e virtuoso della macchina da presa di comprovata bravura, riesce a girare il suo film migliore proprio per il modo in cui riesce a bilanciare l’innovazione tecnologica con il cuore anacronistico e analogico della serie, che resta fatta di corpi e motori che impattano tra loro. Questo cinema si inietta sì di digitale, di droni volanti ed edifici che crollano, ma è evidente che il cuore batte a un livello più orizzontale, ad altezza macchina e uomo. Per questo a contare sono ancora una volta i personaggi, e non certo per la loro psicologia sfaccettata (anche se qui si fanno passi avanti rispetto al passato) ma per la resa cinematografica dei loro corpi in azione, delle loro battute irresistibili, del loro ricorso costante alla retorica della famiglia, un discorso privo ormai di alcun peso politico ma portato avanti per puro sentimento (specie, inevitabilmente, in questo capitolo). Il risultato è un film scritto benissimo (perché l’action si scrive con le battute smargiasse e con il movimento, e qui si ride e applaude mentre tutto ciò che si muove e corre e vola funziona alla grande) che regala una lunga lista di momenti da ricordare e che riesce a trarre il meglio da tutti i suoi personaggi proprio mentre ne introduce di nuovi. Il supporter Kurt Russell è in formissima, mentre il villain del film è interpretato da un Jason Statham forse mai così concentrato e in parte, assolutamente conscio della grande opportunità concessa. Vin Diesel, Paul Walker e compagni animano poi un film che è già parte della storia del cinema action.

Prima di chiudere non si può che passare per l’elefante nella stanza, quella morte improvvisa che non avremmo neanche trattato in questa sede (perché tanto e a volte troppo si è già detto e scritto a riguardo) se non fosse stato per il modo sorprendente con cui gli autori hanno gestito la situazione. E non parliamo certo delle resurrezioni digitali, a quelle ormai siamo abituati. Ciò che spiazza e inevitabilmente emoziona è il modo in cui i due mondi dentro e fuori la narrazione collidano nel corso di tutto il film, e soprattutto nella sua parte finale. Non sapremo mai i cambiamenti occorsi in seguito alla morte di Paul Walker, e di certo non ci interessano. Quello su cui vale la pena riflettere invece è come si concluda il film, non tanto per l’escamotage narrativo che giustifica la futura assenza dell’attore quanto per il modo in cui la scena finale rompa evidentemente la quarta parete, annullando la differenza tra Walker e Vin Diesel e i loro personaggi. La voce che chiude il film, all’interno sempre della sua narrazione, non è più quella di Toretto ma è chiaramente e direttamente Vin Diesel, che si accomiata dall’amico e collega con una franchezza e una semplicità (anche visiva) a dir poco commovente.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 01/04/2015

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