Far East 2013 / Day 8

In Beijing Flickers – il primo film visto quest’oggi al Far East – c’è forse il capolavoro di questa edizione, il pezzo da novanta da ricordare a tutti i costi. L’unico problema è che il film di cui stiamo parlando non è Beijing Flickers pur trovandosi dentro di esso, nascosto sotto le tante banalità di una posticcia voce narrante, vituperato da alcune soluzioni facilmente didascaliche. Sfrontati i quali si sarebbe avuto un film grandissimo, ma di cui invece non possiamo che cogliere parziali bagliori.

L’opera di Zhang Yuan – nel suo raccontare le storie di giovani lasciati indietro dal nuovo imperante capitalismo cinese – racchiude dentro il sé il passaggio da una vecchia ad una nuova Cina, ben rappresentato dall’inquadratura finale, in cui case popolari vecchie e semisepolte riempiono il primo piano mentre in lontananza si stagliano i grattacieli della nuova Pechino, simboli concreti di una modernità capitalistica e sfrenatamente edonista che marcia a tappe forzate. I protagonisti di Beijing Flickers sono coloro che rimangono indietro nella corsa scatenatasi nella nuova Cina del 2000, perdenti che vivono sulla loro pelle le altrui ossessioni per il denaro, dispersi divorati dalla macchina del capitale e poi scartati, poeti consumati da un’inedita alienazione, che riempie strade e locali soffocando ogni speranza. Debbono quindi stringersi tra loro, San Bao e Youzi, Wang Ming e Xiaoshi, per toccarsi e sentirsi e ricordarsi di esistere. Film che fa parte di un progetto multimediale partito con una mostra fotografica, a cui è seguita la pubblicazione di un libro di interviste, Beijing Flickers è un importante ritratto della Pechino di oggi, dell’altra faccia della modernizzazione, azzoppato però dalla scelta di adoperare una voce fuori campo come commento degli eventi che appiattisce di molto la poesia della narrazione, esplicitando ogni sentimento e vanificando il fascino derivato dal mutismo del protagonista, che causa un infortunio rimane silente praticamente per tutto il film. Queste invasive linee di dialogo sono talmente estranee al corpo del testo che viene il sospetto di una pressione esterna, magari dalla produzione; sembra difficile altrimenti che Zhang Yuan non si sia reso conto dei danni compiuti sulla sua stessa opera.

A seguire c’è stata la proiezione di quello che sarebbe stato rivelato il vincitore di questa edizione del Far East Film Festival, How to Use Guys with Secret Tips, esordio per il regista sudcoreano Lee Won-suk. Ennesima commedia romantica di un paese che su questo genere, assieme al gangster, fonda il proprio mercato nazionale, How to Use Guys with Secret Tips è un vincitore forse non troppo meritato, ma comunque interessante per alcune considerazioni che possiamo trarre dal suo strabordante successo udinese (è stato non a caso uno dei film più applauditi in sala). Innanzitutto il film di Lee Won-suk è prova dell’alto livello tecnico del cinema di genere coreano, che anche se polarizzato sulla commedia dimostra di saper sfornare titoli sempre ben girati, ben recitati e scritti con cura. Certo, i meccanismo interni ripercorrono quasi sempre le stesse strade, la dimensione sentimentale pare rigorosa e inevitabile, ma tutte le commedie coreane viste qui al festival possono vantare una fattura tecnica ottima, che li rende prodotti altamente commerciali ma non per questo artisticamente risibili. Oltre a ciò si deve poi aggiungere che How to Use Guys with Secret Tips è un film dannatamente divertente e intelligente nell’esserlo, capace di contaminare umorismo demenziale e anarchia nel migliore dei modi, basandosi molto sulla composizione dell’immagine e sul montaggio e non sacrificando le psicologie dei suoi personaggi nel processo. Il risultato è un film che pur non essendo certo il migliore del festival (ad esempio sul versante commedia gli è decisamente superiore il connazionale All About my Wife) dimostra come il pubblico italiano sappia amare e premiare la commedia ben fatta, per quanto nelle sue manifestazioni più farsesche.

In prima serata arriva invece uno degli appuntamenti più attesi, la proiezione di Comrade Kim Goes Flying, rarissimo esempio di co-produzione tra il cinema europeo (Gran Bretagna, Belgio) e la Corea del Nord. Diretto dai tre registi Kim Gwang-hun, Nicholas Bonner e Anja Daelemans, il film arriva in seguito agli ultimi turbolenti accadimenti che tutti conosciamo, e dimostra già solo con la sua presenza il potere relativizzante di questo festival, in cui alterità diverse si incontrano e interagiscono tra loro a 24 fotogrammi al secondo. Comrade Kim Goes Flying era al contempo atteso al varco nel suo essere comunque un prodotto cinematografico di un paese soggetto a dittatura, e la tentazione di compiere una caccia alla propaganda nel corso della visione è stata forte. In realtà però il film belga-inglese-coreano manifesta solo le evidenze più superficiali della sua nazionalità, con l’adesione a determinati aspetti visivi e la referenza politica di alcune linee di dialogo. Ad esempio tutti sono vestiti allo stesso modo e hanno appuntata sul petto la spilla del loro leader, anche l’ultima delle comparse, mentre la storia di una giovane minatrice che si scontra con il padre per abbandonare il lavoro in miniera e darsi al circo viene collocata in quell’antitesi individualità-collettività che non può che dominare un regime che si definisce comunista. Il padre della protagonista infatti deve abbandonare la necessità individuale di stare accanto alla figlia per favorire invece il benessere collettivo derivante dalla condivisione del suo talento; allo stesso tempo diverse battute esaltano la capacità di ingegno della classe operaria, che tutto può fare se armata di spirito rivoluzionario, e che sempre solo assieme può raggiungere i successi sperati. All’interno di questa cornice però resta il fatto che il film tratta l’abbandono del lavoro di una giovane donna a favore di una carriera nell’arte, nello spettacolo. Forse un’apertura intellettuale da non dare per scontata. Altrettanto curiosa è l’aspetto visivo del film, che per messa in scena e fotografia ricorda i film-tv degli anni ottanta; la struttura fortemente favolistica della storia invece, che rappresenta una società in cui tutti si aiutano, tutti sono gentili e disponibili e incontri casuali risolvono gli intrecci, ricorda certo cinema americano anni ’30, per quanto qui il buonismo di fondo abbia una matrice ovviamente politica.

Superato un film a suo modo unico, occasione ghiottissima per cui non possiamo che essere molto grati al festival, il Far East ci offre anche l’occasione di vedere il film che – battendo The Host di Bong Joon-ho – si è confermato come il campione di incassi assoluto della storia del cinema coreano. Parliamo di The Thieves di Choi Dong-hoon, apparente derivazione di Ocean’s Eleven che si rivela nel corso d’opera molto di più. Nel suo rapporto con il film di Soderbergh, fatto di assonanze e forti distanze, The Thieves permette di individuare alcune dinamiche constanti nella relazione tra cinema coreano e hollywoodiano. La prima parte del film di Choi, ad esempio, ci dice che la maestria tecnica di scrittura di certo cinema di genere americano rimane ancora insuperata: pur meno ambizioso e originale, l’Ocean di Soderbergh ha una sceneggiatura strutturalmente perfetta, capace di disegnare e gestire ottimamente masse di personaggi e piani criminali complessi; The Thieves di Choi ha invece una parte centrale troppo confusa, in cui tanti protagonisti vengono gettati confusamente in mezzo mentre il piano non viene presentato con chiarezza allo spettatore, che così non riesce a seguire l’azione e a capire cosa va storto e come, dato che non gli è chiaro fin dall’inizio cosa doveva andare bene. La seconda parte del film invece rovescia la divisione dei demeriti e degli onori: dove il cinema americano si dimostra poco coraggioso nel ribaltare gli equilibri tra i personaggi e poco incline a contaminare i suoi film più brillanti con violenza e sentimenti forti, The Thieves conferma l’attitudine del cinema coreano per il realismo, la crudezza dei temi e la violenza. Impreziosito da scene d’azione altamente spettacolari – che confermano l’altissima preparazione tecnica di tutti i registi coreani di successo – The Thieves ha una seconda parte che riporta tutto in gioco, sorprende e avvince lo spettatore con colpi di scena continui, superando per coraggio e intensità il suo apparente referente americano e conquistando un’indipendenza tutta interna al suo cinema nazionale. Grande spettacolo intelligente e estremamente curato, ennesimo segno di una cinematografica in crescita constante.

A chiudere la ricca giornata abbiamo invece avuto il terzo horror thailandese della selezione, che dopo Countdown e Long Weekend conferma la vincente qualità di questo cinema. Dei tre film 9-9-81 è quello più coraggioso e originale: costruito attorno al suicidio di una giovane donna vestita da sposa, il film esplora con nove cortometraggi i punti di vista dei vari personaggi coinvolti nella vicenda, con un esplosione rashomoniana dello sguardo che arricchisce il film di un dato inaspettato, la tristezza. Oltre a mettere in scena diverse conseguenze orrorifiche dell’atto, e quindi diverse strategie del genere, 9-9-81 riesce infatti nel mirabile intento di esplorare con profondità le psicologie dei suoi protagonisti, tratteggiando ritratti sentiti e toccanti come quelli dei genitori e di lei, la sposa, vittima di una realtà dalla quale non è riuscita ad evadere se non in una fuga totale e senza scampo.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/01/2015

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