Far East 2013 / Day 6

A causa di motivi logistici (o meglio di stretta sopravvivenza di chi scrive) la giornata di ieri è stata la più breve di quelle vissute a questo Far East, con soli tre film visionati nel corso della serata. Oltre ad aver recuperato le energie per l’abbuffata finale, l’aspetto positivo è che si è trattato di un terzetto di opere decisamente interessanti, diverse tra loro e ben rappresentanti le varie anime del festival udinese.

I danchi – complessi di case popolari giapponesi – li abbiamo già incontrati in questi giorni; uno di essi era la cornice in cui si scatenavano gli orrori di The Complex, di Hideo Nakata. Palazzoni a schiera sorti nel secondo dopoguerra, i danchi creavano al loro interno dei quartieri fortemente isolati, comunità che come piccoli paesi nelle città vivevano in forte autonomia. E’ in uno di essi che risiede il giovane protagonista della bella commedia agrodolce See You Tomorrow, Everyone di Nakamura Yoshihiro, il secondo film davvero convincente della selezione giapponese. La storia, volutamente semplice, è quella di Satoru – interpretato dall’attore feticcio di Nakamura, Hamada Gaku – che dopo aver finito il primo ciclo di istruzione inferiore prende due decisioni fondamentali: troncare la propria carriera scolastica e non mettere mai piede ad di fuori del suo danchi, nel quale, dice, ha tutti gli elementi necessari per vivere. Mano a mano che gli anni passano, con una narrazione che parte dal 1981 per compiere a balzi quasi vent’anni della vita di Satoru (e del Giappone), impariamo a conoscere le tante manie del nostro protagonista, che ossessionato dalla sicurezza del quartiere compie ronde notturne quotidiane, appunta e scheda i suoi vecchi compagni di scuola, aiuta un compagno soggetto a bullismo. E’ un controllore Satoru ma in lui non c’è alcuna malizia, anzi un candore della volontà che lo mantiene in uno stato di perenne ingenuità fanciullesca; scoprirà il sesso e la violenza, ma quell’innocenza rimarrà lì, assieme però al terrore di uscire dal suo danchi. E’ solo a metà film che Nakamura ci permette di scoprire il segreto di Satoru, di capire che tutte le sue manie e il suo voto claustrofobico derivano dall’aver assistito giovanissimo all’omicidio di un suo compagno di classe, un trauma che lo porterà all’ossessione per la sicurezza e al conseguente rigetto del cambiamento, dello scorrere delle cose. Con una di quelle costruzioni allegoriche semplici semplici ma comunque molto funzionali, Nakamura mette in scena con estrema delicatezza la paura e l’angoscia per il tempo che passa e l’inesorabile cambiamento che ciò comporta, in una progressione inarrestabile riportata diegeticamente con la graduale partenza negli anni di tutti i vecchi compagni di classe di Satoru, che intrappolato nel trauma rimarrà solo. Sarà il confronto con la morte a liberarlo dall’incantesimo, a permettergli di ritrovare se stesso anche oltre quei fitti palazzi.

Al bel film di Nakamura, forse troppo didascalico ma comunque decisamente valido, segue l’hongkonghese The Bullet Vanishes, che al racconto intimista di formazione sostituisce rivoltelle, deduzioni geniali e una vaporosa ambientazione anni trenta vicina allo steam punk. Siamo ovviamente nel terreno dello spettacolo puro, che il regista Lo Chi-leung riesce a restituire con grande efficacia nonostante il film sia fortemente derivativo e alquanto sbilanciato nella sua sceneggiatura. Con un detective geniale e il suo svelto assistente alle prese con un caso apparentemente impossibile,The Bullet Vanishes si colloca infatti nel fitto filone dedito oggi alla rielaborazione dell’opera di Conan Doyle, ma non lo fa reinventando il personaggio quanto piuttosto travasando in terra d’oriente la lettura data di recente da Guy Ritchie, il cui dittico è oggetto di molti prestiti da parte di Lo Chi-leung, dalla fotografia plumbea all’ambientazione della fabbrica d’armi, dal rapporto tra i due protagonisti rivisitato in chiave action ad alcune sequenze, una delle quali ripresa tale e quale con tanto di medesime inquadrature e movimento degli attori (la scena dell’esplosione in rallenti). Oltre a ciò il film di Lo Chi-leung ha un finale troppo lungo e inutilmente ingarbugliato, con personaggi chiave introdotti all’improvviso e un confronto molto didascalico (ma il cui colpo di scena che vi è alla base è molto efficace). Allora cos’è che fa di The Bullet Vanishes quello che a descriverlo non sembrerebbe, ovvero un buon film? Tante piccole cose in realtà, dall’ottimo ritmo ad una regia ben studiata tra spettacolo e iper-realismo, dalla grande bravura dei due protagonisti al gusto con cui i citati prestiti vengono effettuati. Il risultato è così un film dannatamente divertente pur nella sua natura in parte fotocopiata, un ottimo spettacolo da affiancare con complice consapevolezza ai numerosi epigoni di Sherlock Holmes che affollano oggi i nostri schermi, grandi o piccoli che siano.

L’horror è sostanzialmente una favola morale, e a ricordarcelo arriva in serata il regista thailandese Nattawutt Poonpiriya, in arte Baz, che porta alla proiezione di mezzanotte il miglior film di questo genere visto sinora al festival. L’horror è una favola che può essere piattamente moralistica, magari quella dell’ennesimo pazzo fondamentalista religioso deciso ad uccidere ad asciate adolescenti macchiatisi di peccati imperdonabili come uso di droghe o sesso prematrimoniale; o invece giustamente etica, come la discesa all’inferno cui viene condannata la protagonista di Drag Me to Hell dall’implacabile Sam Raimi. Countdown, girato a New York praticamente tutto in una stanza con quattro protagonisti, pare in un primo momento collocarsi sul versante più asfittico e bigotto del duopolio descritto; la storia parte infatti con i tre giovani protagonisti, thailandesi emigrati nella grande mela, ritratti nella loro vita mediamente dissoluta e alle prese con la ricerca di una massiccia dose di erba con la quale allietare il capodanno, in arrivo per quella sera. La loro peccaminosa ricerca di svago li porta però a chiamare Jesus, una sorta di Drugo in versione messianica più in forma fisica e con una maglietta dei Led Zeppelin in bella vista, carico di tanta erba da garantire un accesso veloce alla famosa scala per il paradiso. Inutile a dirlo Jesus si rivelerà leggermente più ostile di quanto sembrasse in un primo momento, ma quando la storia pare appunto collocarsi sul filone reazionario del pazzo pronto a punire giovani dissoluti, il film prende una brusca sterzata; Jesus si conferma effettivamente un matto scatenato, ma forse incarna davvero qualche superiore forza giudicante, e quei tre giovani così simpatici forse non sono solo ragazzi in cerca di uno sballo ma veri figli di puttana, peccatori con sporchi segreti nascosti nel profondo. E i peccati, quelli veri, si pagano. Esordio alla regia per il giovane Baz, Countdown è un film sorprendente che vive nella grande interpretazione gesuita di David Asavanond, capace di recitare perfettamente in inglese e thailandese e di dosare il folle istrionismo che lo anima senza che esso trasformi il film in un gran baraccone privo di sostanza. Baz, adottando un linguaggio pienamente occidentale, costruisce assieme a lui un personaggio irresistibilmente luciferino, che terrorizza e diverte in egual misura e rende il film una perla del b-movies, carica di cattiveria e corrosivo humour nero. Il risultato è un horror decisamente ben fatto, in cui Baz rivela, a parte qualche sbavatura, un’ottima consapevolezza del mezzo per un esordiente, soprattutto per la gestione dell’unità di spazio, tempo e azione. Girato in lingua inglese e fortemente occidentale – per quanto si giochi molto sul rapporto tra spiritualità orientale e materialismo occidentale – Countdown potrebbe anche sperare in qualche forma di distribuzione, magari non italiana ma internazionale si. Non resta che augurargli buona fortuna.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/01/2015

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