Escobar - Paradise Lost

L'Escobar di Del Toro è una figura legata alla santità spietata ed assassina. Una prova attoriale potente in un film che dipende troppo dalla sua presenza scenica.

La fede può essere scissa in due grandi categorie: c’è la fede per il trascendentale, l’amore incondizionato per un’entità divina e distante, e la fede umana, la fede materiale ed a volte spietata, che nasce dagli uomini ed in loro si consuma. Quest’ultima spesso può essere condivisa da un popolo intero e può riversarsi nei confronti di una personalità forte, un’identità che di divino non possiede nulla, un amore nazional-popolare incondizionato nei confronti di uno spirito umano racchiuso in un corpo mortale. Questa è il tipo di fede che il popolo colombiano possiede nei confronti di el machico, all’anagrafe Pablo Emilio Escobar Gaviria. Conosciuto come il Re della Cocaina, negli anni ’90 ha gestito un impero criminale con un patrimonio di 30 milioni di dollari. Gestendo il Cartello di Medellin, Pablito ha governato il mercato della cocaina esportando, attraverso i suoi canali soprattutto nel suolo americano, tonnellate e tonnellate di polvere bianca. Ha governato con la potenza e la paura dell’arma da fuoco, ha sostituito il potere del sangue al potere politico egemone, ha ucciso a sangue freddo uomini, donne e bambini ma, ha anche aiutato economicamente la parte più povera del suo Paese, costruendo scuole, ospedali, infrastrutture, tanto da essere santificato dal suo stesso popolo. Iniziamo dicendo che Escobar – Paradise Lost di Andrea di Stefano non è un biopic su Escobar. Il film racconta la storia d’amore tra un giovane surfista canadese (Josh HutchersonHunger Games) e la nipote del narcotrafficante, Maria (Claudia Traisac). Arrivato in Colombia con suo fratello alla ricerca del paradiso perduto ed incontaminato, trovandolo su una bianchissima spiaggia al di là della foresta, conoscerà Maria e se ne innamorerà ma, l’amore nei suo confronti gli insegnerà la strada che porta all’inferno. Entrerà a far parte della familia Escobar in un preciso spaccato storico. Siamo agli inizi degli anni ’90 ed Escobar è costretto ad una volontaria reclusione (raggiunta attraverso un accordo con gli Stati Uniti per evitare l’estradizione) per porre fine alla guerra nata tra lo stesso Padron ed il governo americano, compromesso raggiunto dopo l’assassinio del ministro della giustizia colombiano. L’opera prima di Di Stefano (attore in Almost Blue, Il Fantasma dell’opera, Prima che sia notte, Vita di Pi) possiede una struttura classica e forte che funziona solo a tratti. Questi singhiozzi di riuscita cinematografica sono legati soprattutto dalla presenza scenica di Benicio Del Toro che interpreta el machico. Attore immenso, sia nella potenza attoriale sia nella sua colossale figura scenica, già interprete di figure illustri della storia del territorio sudamericano (Che di Soderbergh) e di narcotrafficanti (Traffic e Le belve), Del Toro sbaraglia qualsiasi attore messo al suo fianco divorandosi le scene che condivide con gli altri attori. Il problema del film è proprio questo: quando Del Toro compare in scena il film regge, quando Del Toro non c’è in scena il film perde di consistenza. L’Escobar di Del Toro è un uomo scisso tra fede, lealtà, beneficenza ed efferata spietatezza. Una figura interpretata al massimo livello di realismo, molto adiacente alle contraddizioni proprie del vero Escobar. Agghiacciante (e divertente) soprattutto nella prima parte del film dove non sono le pistole ad essere le protagoniste ma dove la tensione si costruisce attraverso la pericolosità implicita nel personaggio. Il terrorismo psicologico della prima metà funziona meglio rispetto alla seconda parte dove il film cede all’action movie, una caccia all’uomo serrata ma stinta da un Del Toro che latita nelle suddette scene. Del Toro/Escobar è un uomo potente, un uomo con una profonda fede cattolica, un uomo astuto e spietato nei confronti della fallace fede umana. Troppo potente risulta essere la sua prova attoriale e, se da una parte è una delizia per gli occhi, dall’altra la sua figura è talmente tanto ingombrante da mangiarsi quasi tutto il film. Una figura finale di un Escobar che sta per ritirarsi nella sua prigione dorata, La Catedral, come un santo o forse come qualcosa di più grande, un uomo in carne ed ossa che tutto sa e che tutto conosce, un uomo potente, buono e spietato allo stesso tempo, un uomo che ha perso la sua identità carnale divenendo entità trascendentale, sostituendosi a Dio (la sintesi tra l’uomo e la divinità ormai è completata) benedendo il prete che lo attende alle porte della sua prigione. Prete: Che Dio ti benedica. Escobar: Si Padre...però un giorno voglio comprarmi un telescopio tanto tanto potente da guardare in cielo, guardare in faccia il nostro Dio, così sarò io a controllarlo, che te sia benedetto. Ed infine entrerà claudicante nella sua Catedral da spietato santo assassino.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 19/10/2014

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