El Sicario - Room 164

Juàrez, Tijuana, El Paso – città di frontiera, tra Messico e Stati Uniti. Cartelli di spaccio internazionale e luoghi di morte e torture. Motel di confine, luoghi appartati e occulti, mini appartamenti occupati senza impegno. Luoghi d’incontro, dove potersi fare accompagnare da qualche ragazza trovata sul ciglio delle remote highway che l’attraversano. Stanze dove poter sequestrare, trattenere, torturare, uccidere. Ma non questa volta. Gianfranco Rosi e il suo occultato interlocutore scelgono la stanza 164 e questa volta in quel luogo si “canta”, si racconta e si documenta la storia di un sicario, uno vero e reale, non c’è nessun attore dietro lo spesso strato di tela nera che gli ricopre il viso, chi parla è un autentico killer del cartello di Juàrez. Saturo di storie già sceneggiate nel vasto genere gangster, il documentario di Rosi, presentato alla 67° mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, interloquisce e lascia parlare un protagonista mascherato.

Dopo aver letto un articolo dell’amico Charles Bowden, pubblicato su ‹‹Harper’s magazine››, sul tasso di criminalità di Ciudad Juàrez, il regista decide di incontrare quest’uomo sul quale ricade una taglia da 250.000 mila dollari. E l’uomo nero si racconta: arruolato da giovanissimo dai narcos, entra a far parte, attraverso proprio questi ultimi, del corpo di polizia di Juàrez, addestrato con i metodi dell’FBI (alcuni dettagli sui sistemi di tortura li abbiamo già sentiti e visti a Guantanamo), drogato per anestetizzare i compiti assegnategli dal cartello e spinto ad uccidere, trafficare, sequestrare, terrorizzare, occultare, seppellire e massacrare più di 10 mila persone. Gli ultimi preparativi al triplo strato nero che lo rende irriconoscibile, ai fogli bianchi e una piccola penna nelle enormi mani da omicida, aprono al racconto. Non si può uscire dalla stanza, in 80 minuti di documentario non si esce, solo qualche piccola istantanea aerea degli anonimi quartieri di Juàrez ce lo permette, il resto è solo ascolto aiutato da disegni e grafici di metodi e tecniche di terrore, spiegazione di sistemi di collusione con le autorità messicane e americane.

Rosi non domanda, monta le sue risposte e le situazioni di ricostruzione mimica degli episodi di violenza e tortura, lasciando al taccuino il servizievole compito di enunciare le macabre cifre dei reati. Il sicario non si risparmia, và giù duro, lo spettatore lo segue, forse le storie e i meccanismi già li ha sentiti da qualche altra parte ma ne rimane comunque avvinghiato – stragi perpetrate con un enorme bollitore, il sicario non si risparmia, sciorinando tutto. Il regista ha per le mani un attore nato e per questo il suo documentario diventa un “One Man Show” di violenta brutalità. Un lavoro basato essenzialmente sul pro filmico, la possibilità di includere un personaggio tanto esplicativo e suggestionabile come questo sicario dà la possibilità a Rosi di eludere ambienti e sceneggiatura e riservare un palcoscenico dove il nostro “attore” possa monologare con lo spettatore.

E forse è proprio qui che sta il problema. In questo modo si ascoltano storie vere ma non suggestionabili perché già sentite, si osservano azioni di tortura già interpretate in numerosi gangster movie, si annotano cifre (pazzesche, ma..) già lette in sondaggi ed interviste, quello che si perde è il ritmo dell’azione che coinvolge una visione. Ma il sicario se ne frega e continua a raccontare, lui è eloquente e la sua esistenza è stata violenta ma anche spettacolare, per tutti i 25 anni al servizio del cartello “The world was his” ma adesso che non riesce più a sopportare il peso delle sue azioni, non riesce più a drogarsi per affrontare con fedeltà i comandi del boss, adesso che la sua intimità e famiglia è stata messa in pericolo dal cartello stesso per mancanza di fiducia, nello stesso identico modo spettacolare concede la sua esistenza a Dio. Con la stessa entusiasmante megalomania deve redimere i suoi peccati. E a noi ce lo racconta nello stesso identico ed eloquente modo, mima ed interpreta la sua catarsi da grandissimo attore di se stesso che si ritrova essere.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 16/08/2014

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