Dove mi portano i miei film, vado io – Masterclass con Miike Takashi al Festival di Roma

In occasione del Maverick Director Award e della proiezione dell’ultimo "As the Gods Will", Miike Takashi ha tenuto una masterclass moderata da Giona Nazzaro e Manlio Gomarasca.

Scorrono davanti agli occhi le immagini di alcuni dei tanti, troppi film di Miike Takashi. Ogni tributo di montaggio sarà sempre condannato a un’inevitabile sconfitta. Escluse le ipotesi di totalità, qualsiasi film di Miike non è mai l’ultimo, qualunque ipotesi di catalogazione si rivela inutile e frustrante. Si pensa questo mentre si assiste al video-omaggio che precede la masterclass di Miike, moderata da Giona Nazzaro e Manlio Gomarasca. La strana figura che emerge dall’incontro è quella di un uomo che vive di cinema, respira per immagini, pensa attraverso stacchi di montaggio, rifiuta di rivedere i suoi film perché è già al lavoro sull’opera successiva.

Questo regista poliedrico e multiforme, che apre e chiude progetti come fossero porte, cambia pelle continuamente, slittando di esistenza in esistenza: d’altronde se si osserva la filmografia miikiana ci si rende conto di come il regista abbia accumulato ormai quasi cento titoli. Miike è l’autore dell’impossibile, l’uomo-cinema che si reincarna proprio come il suo Izo, incrementando il contenuto esperienziale mediante le storie che mette in scena. Questo cineasta onnivoro, questa figura tanto destabilizzante all’interno del panorama cinematografico contemporaneo, si presenta gentile e sorridente, con animo umile e ben disposto. Racconta delle sue origini nell’ambito del V-Cinema e delle produzioni televisive giapponesi, dell’approdo alla sala e della circolazione espansa dei suoi lavori. Quando Gomarasca gli chiede qual è stato il momento in cui gli studios si sono accorti di lui, Miike, con far sardonico, risponde che ancora non se ne sono completamente resi conto. Del resto stiamo parlando di un autore che riesce a passare con estrema disinvoltura da progetti low-budget a blockbuster nazionali. L’unico oggetto d’interesse rimane il film al di fuori di ogni contesto produttivo. Quello che Miike ha fatto per oltre vent’anni è stato tentare di tutelare la propria libertà espressiva, evitare di scendere a compromessi, riuscire ad avere l’ultima parola perfino nelle situazioni più difficili. Non sempre c’è riuscito, perché all’interno della sua visione di cinema l’ispirazione si deve coniugare con quella che non è banalmente solo una necessità alimentare, ma una sorta di obbligo fisiologico: per una volta vale l’appellativo di regista bulimico.

Nazzaro, nel corso dell’incontro, sottolinea un’altra caratteristica del cinema miikiano, che è quella dell’estrema disciplina nei confronti della materia-cinema. Che si tratti di Yattaman o di Gozu non importa, Miike è sempre stato un cineasta rigorosissimo. All’interno di questo rigore, afferma il regista, è normale che usare budget più bassi consenta di divertirsi maggiormente, poiché si hanno meno pressioni o vincili contrattuali. ”Non c’è una differenza di valore a seconda del budget”. E poi continua ”Il fatto di creare un film fa sì che io possa avere un cammino. Dove mi portano i miei film, vado io”.

Quando poi Miike si concede la parentesi circa la sua esperienza americana per Imprint, uno degli episodi di Masters of Horror, regala degli aneddoti davvero imperdibili. Quegli stessi Americani che gli avevano dato carta bianca e libertà infinita, negarono all’episodio il passaggio in televisione. Miike descrive la sua immagine dell’America, fasullo Paese della libertà, con cui divertirsi a giocare, svelando tutte le ipocrisie del sottosuolo.

Alla fine arriva la solita, vecchia domanda sul film che preferisce tra tutti quelli che ha girato. Miike sorride e risponde: “Il film che più mi rappresenta è sempre l’ultimo che ho fatto”. E all’improvviso ci si aspetterebbe quasi che a qualcuno, in sala, possa esplodere la testa come nell’ultimo As the Gods Will.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 20/10/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria