Dossier Steven Spielberg / 6 - 1941 – Allarme ad Hollywood

L'implosione autodistruttiva dell'industria hollywoodiana tramite i sintomi dell'isteria bellica, dalla malinconia di Dumbo al terrore verso lo Yellow Submarine.

Impossibile racchiudere una carambola in una noce, un ingigantimento macroscopico così corrosivo ed esplosivo all’interno di un quieta ampolla di vetro e parole con l’intenzione di descrivere una sciarada fulminante e puramente cinematografica. 1941 è un film immenso e rocambolesco, un susseguirsi di esibizioni metacinematografiche che solo lo sguardo – spettatoriale – può contenere. Lasciando alla visione il principio scopico dell’osservazione, il film è un trasporto musicale in tempo bebop, una forma cinematografica in subbuglio gastrico, dove al suo interno scorre cinismo auto-iconoclasta – all’americana - che trasuda risate e mal di mare. Per provarci dobbiamo quantomeno definire il contesto, racchiudendo tra parentesi storiche il film, per capirne le ragioni, le critiche e l’insuccesso – commerciale – da cui deriva e che viene ricordato.

Il 1970 porta con sè gli ultimi orrori della guerra del Vietnam, l’America intera annientata nell’etica patriottica e disgustata dal conflitto dal quale uscirà perdente e menomata. Ad Hollywood le parodie demenziali di Mel Brooks prima e del trio Zucker-Abrahams-Zucker la fanno da padrone, nel 1978, un anno prima dell’uscita di 1941, Landis porterà alla ribalta con Animal House un gruppo di caratteristi goliardici formidabili, formatisi al Saturday Night Show, che diverrà il tesoro dei successivi anni ’80. I movie brats rinnoveranno un nuovo livello di Studio System oramai impantanato, è l’epoca della New Hollywood. La contestazione dell’american way of life, del reganismo e dello yuppismo, modelli che si aggroviglieranno disgiungendosi, ricostituendosi poi nell’ibridazione nel sense of wonder che rinnoverà Hollywood come industria dei sogni. Non volendo soffermarmi troppo sulla trama la sintetizzerò così: alcuni giorni dopo l’attacco di Pearl Harbor un sottomarino giapponese si avvicina alle coste americane intento a distruggere le industrie cinematografiche hollywoodiane, la paranoia dei "gialli" si diffonde nella popolazione civile e tra le file dell’esercito americano, non rimane altra scelta che autodistruggersi, harakirarsi nel terrore prima ancora dell’attacco nemico. I giapponesi, dopo aver colpito la flotta nelle isole Midway, vogliono colpire le industrie americane, e quale miglior industria colpire – sia nel 1979 che nel 1941 – se non le allora floride industrie produttive cinematografiche americane? Spielberg alla regia dimostra fin da subito di saper gestire un set enorme e pirotecnico con maestria e vigore, un cast che racchiude in sé parte del miglior cinema passato e parte del miglior cinema futuro, da Christopher Lee a Toshiro Mifune, da Robert Stack a Carol Lombard, da Dan Aykroyd a John Belushi, solo per citarne alcuni. Coppia quest’ultima che tornerà un anno dopo con il film che effettivamente aprirà gli anni ’80, The Blues Brothers, sintetizzando e riproponendo alcune caratteristiche di ritmo, musicalità e derive demenziali edulcorate proprie e caratterizzanti del film di Spielberg. Se aggiungiamo al soggetto John Milius ed alla sceneggiatura Bob Gale e Robert Zemeckis, che solo un anno prima aveva tentato di terrorizzare anche New York con l’arrivo dei Beatles (tornando quindi un anno dopo a terrorizzare Hollywood con uno speculare sottomarino giallo) in I Wanna Hold Your Hand, capiamo che gli ingredienti ci sono tutti per un ponte apocalittico-cinematografico-musicale anni ’70 – ’80.

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Il cinema di Spielberg e della New Hollywood è un cinema che si nutre di altro cinema – e nel primo caso rivolgendosi al carattere emotivo dello spettatore – guardando sia al passato, quindi conoscendo ed avendo assimilato autori e film che hanno strutturato il cinema americano che li ha preceduti – non dimenticando che la maggior parte di loro ha frequentato gli stessi corsi di cinema della University of Southern California o dell’UCLA -, sia al presente, rivolgendosi alla sua evoluzione interna, in perfetta sincronia rispetto al suo stesso concretizzarsi come forma cinematografica compiuta e composta. Citazioni ed autocitazioni sono utilizzate con sapienza cinefila, testi filmici che si nutrono di schegge metafilmiche e metacinematografiche per costruirsi, inserendosi all’interno di situazioni strutturanti – e drammaturgiche - della loro stessa scrittura. Non c’è da meravigliarsi se l’apertura del film ricorda il precedente Jaws, se le note di John Williams battono lo stesso tema, se l’aeroplano del capitano Wild Bill Kelso apre le fauci come uno squalo, se il gerarca nazista – Lee – viene illuminato sempre dal basso manifestando un amore viscerale per le sue interpretazioni nei film della Hammer, se la stazione esplosa all’inizio del film è la stessa di Duel, oppure se alcuni espedienti ironici preannunceranno l’evolversi di opere successive, come la corsa nel sidecar per Indiana Jones, o come il parco di divertimenti giurassici dove verrà catapultato nel finale l’aereo americano abbattuto. Fa tutto parte del gioco, di un unico e denso universo cinematografico che si ripropone, si reclama, si clona, si profetizza. 1941 è la finzione di Hollywood che non si nasconde, che diventa manifestazione del suo stesso essere, che ruota, esplode, spara, disintegra, rimbalza, rimbomba, autodefinendosi ed infine autodistruggendosi dall’interno stesso della sua falsificata (ma non sullo schermo dove la magia del cinema nasconde la falsità metacinematografica) epifania creativa. Lo strumento della sua creazione, il set, le comparse, il cinema stesso, imploderà dall’interno, si guerreggerà in maniera intestina, nell’ultima grande scena gli stessi luoghi del cinema, le stesse scenografie, cadranno tra colpi dei loro protagonisti. L’epidemia paranoide non esiste, la guerra stessa non esiste, i giapponesi non esistono se non come comparse di un film che si sta facendo, che si sta materializzando di fronte al medium cinematografico. Creazione – Racconto – Distruzione. Preproduzione – Set – Smantellamento. Un ciclo vitale cinematografico completo ed esplicitato. L’ironia sta nel giusto – e geniale - parallelismo tra l’ingenuità, il candore e la malinconia di una visione in sala come l’allora ultimo film Disney, Dumbo – innalzato qui a simbolo e simulacro della purezza e goduto dall’unico personaggio leggermente più assennato dell’intero film - ed il trambusto esterno alla sala che si nutre dell’isteria di massa, che può esistere nella sua rappresentazione bellica, e distrugge ed autoconsuma il cinema stesso senza riuscire ad entrare nel luogo adoperato dal cinema per manifestarsi, un luogo in cui nessuno spettatore riesce a divincolarsi dal sogno lucido; restando quindi al di fuori della sala/tempio, come un suono che nella sua sacra magia cinematica può giungere esclusivamente come un strascico rumoristico di una sirena antiaerea, che rimbomba in lontananza nella stessa emotività veicolata dalla proiezione di Dumbo. Il concetto di Cerchio Ferito1, sintetizzato da Francesco Dragosei nel suo saggio Lo squalo e il grattacielo e riproposto da Canova in un saggio su Spielberg, ha nella sala cinematografica – e nel suo carattere distanziatore ed emotivo (Dumbo) - l’unica retroguardia capace di salvare l’americano e l’America da qualsivoglia esterno oppressore, da qualsiasi minaccia incombente, da qualunque spietata isteria massificata.

Gli anni ’80 e successivi torneranno ad indagare il fronte della seconda guerra mondiale attraverso delle opere di revival storico e lo stesso Spielberg tornerà sull’argomento con film dal carattere meno farsesco ma pur sempre carichi sul livello emozionale e affettivo. Se in alcune opere che precedono 1941 si sovvertiva la guerra attraverso una chiave di lettura parodistica – pensiamo per esempio a Come vinsi la guerra di Buster Keaton (1926), La guerra lampo dei fratelli Marx di Leo McCarey (1933), Gli allegri Eroi di James W. Horne (1935), al dittico di Allen, Il dittatore dello stato libero di Bananas ed Amore e guerra2, rispettivamente del 1971 e del 1975, successivamente – tolti alcuni lavori di Jim Abrahams – la guerra tornerà a far paura sullo schermo ed a raccontarsi più seriamente anche all’interno della stessa filmografia del regista.

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Quello che a noi interessa, in questo caso, è la capacità cinematografica di sovversione del senso e delle parti della guerra. Spielberg in 1941 rovescia e floppa gli elementi semantici ed i protagonisti stessi del Secondo conflitto mondiale: il combattente nero che diventa bianco ed il bianco che diventa nero sovvertendo graficamente – ed etnicamente - il concetto della discriminazione razziale, l’attacco di Pearl Harbor è arrivato dai cieli – ed infatti tutti si aspettano nel film un nuovo bombardamento – mentre in realtà arriverà tramite il mare. Il significante si discosta dal suo significato diventando l’opposto di se stesso, suo perfetto contraltare. La follia della guerra, che si addensa all’interno delle immagini così parodisticamente antimilitariste, trova una sua motivazione nella psicanalisi di natura freudiana di un’intera Nazione, se da un lato i simboli ed i significati si invertono, dall’altro vengono sublimati attraverso il conflitto, la psicologia sessuale che impernia tutto il film è un chiaro esempio di sessualità frustrata, e gli unici che davvero la consumano diverranno il nemico da abbattere. Se lo scontro tra la verginità del carattere femminile e la possessività del maschile, dal fondo delle strade, induce Wally e la sua ragazza ad iniziare una baraonda nella music hall dividendo i contendenti tra Esercito e Marina, nei cieli si consuma veramente l’atto sessuale e metaforico mentre l’aereo sorvola all’impazzata una Los Angeles ferina e gonfia di frustrazioni sessuali. L’unico personaggio, l’eroe vero e proprio del film, Kelso tenterà di prevenire la definitiva catastrofe sessuale; questo è anche l’unico personaggio che attraversa il film dal cielo in maniera trasversale passando tra tutti gli elementi (aria, fuoco, terra, acqua) necessari a raggiungere il suo scopo bellico – scopo sessuale, una pulsazione castrata che rimanderà sempre alla fine del conflitto non riuscendo mai a consumarla nel momento stesso del desiderio - finendo poi all’interno del sottomarino ed inabissandosi così nel totale fuoricampo. Sorge dal nulla – in un fuoricampo fatto d’aria – e si sommerge nel nulla – in un fuoricampo fatto d’acqua. Spielberg sembra definire l’isteria sulla base dell’impedimento e dell’impotenza di una Nazione da un punto di vista puramente sessuale. Il delirio investe i sensi, soprattutto quelli dalla cintola in giù, e mentre Los Angeles canta, urla, combatte e balla a ritmo di bebop, il giallo – il colore riflesso della loro follia - corrobora le istituzioni americane come l’esercito e la famiglia, la liberalizzazione delle armi da fuoco per difesa personale e la proprietà privata, divorando i propri miti e simboli, da Babbo Natale alla Coca-Cola passando per la Bank of America e Zio Sam: e qui Saturno ha fame di se stesso. "Bella la guerra, la rifacciamo!" E così la pancia torna piena, l’America non è mai impazzita, non si è mai sazi di niente ... e rivediamocelo và!

1«L’america rappresenta e percepisce se stessa come sottoposta a un grande assedio minaccioso da parte di forze oscure e ostili. […] c’è sempre una forza, un’entità, una creatura, un’idea, un fantasma o un nemico che minaccia il cerchio e lo insidia e cerca di entrare per portarvi disordine, tenebre e caos. […] Sono, di volta in volta, i pellerossa, i negri, i comunisti, gli arabi fondamentalisti.»

2 L’analisi del film in questo articolo ed i riferimenti cinematografici in esso contenuti sono stati sviluppati leggendo l’ottima analisi condotta da Emilio Audissino nel suo saggio: 1941: Allarme A Hollywood: La Follia (AUTO)DISTRUTTIVA Della Guerra.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 02/11/2015

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