Dossier Steven Spielberg / 5 - Incontri ravvicinati del terzo tipo

Ricordare i Settanta, immaginare gli Ottanta

Nel 1976 Steven Spielberg e George Lucas erano due amici sulla trentina, entrambi alle prese con la lavorazione di film che avrebbero segnato per sempre la loro carriera. Spielberg sul set di Incontri ravvicinati del terzo tipo, Lucas su quello di Star Wars. Succede che quest’ultimo è in piena crisi, è deluso dalla lavorazione in corso perché sente di star creando qualcosa di lontanissimo rispetto alle iniziali intenzioni e allora decide andare a trovare Spielberg sul suo gigantesco set in Alabama. Lucas è convinto che Incontri ravvicinati sarà un successo senza precedenti, mentre non sa neanche se riuscirà a finire il suo lavoro e allora propone a Spielberg una scommessa: ciascuno prenderà il 2,5% degli incassi del film dell’altro. La scommessa è prontamente accettata e, nonostante Incontri ravvicinati sia stato il più grande incasso della carriera di Spielberg fino a quel momento, superando anche Lo squalo, il fenomeno Star Wars ha travolto il mondo intero negli ultimi quarantanni (e non accenna a placarsi), tanto che il buon Steven è ancora lì a contare le banconote. Questa notazione aneddotica molto divertente restituisce la vitalità e la compattezza di un clima, quello della Nuova Hollywood, in cui alcuni autori che in futuro sarebbero diventati i caposaldi del cinema americano moderno si trovavano in una fase della carriera in cui il talento poteva essere sprigionato senza barriere di sorta.

Steven Spielberg è un autore dalla carriera quasi inimitabile, capace di dividersi tra i ruoli di regista, sceneggiatore e produttore (spesso incarnando le tre figure contemporaneamente) e oscillando, soprattutto negli ultimi anni, tra cinema e televisione. Arrivata ormai alla quinta decade, la sua filmografia fa impallidire perché in ogni decennio sono riscontrabili opere di grandissimo impatto su pubblico e critica, ma forse ancora di più sulla sistematizzazione della storia del cinema; tappe fondamentali della metamorfosi del cinema americano che, una volta storicizzate rappresentano agli occhi degli studiosi degli stazionamenti rispetto ai quali non si può voltare lo sguardo. L’autore de L’impero del sole, dalla fine degli anni Settanta ha cominciato a non essere soltanto un regista, affiancando all’attività di metteur en scène quella di produttore, affermandosi come una delle principali locomotive dell’industria hollywoodiana, presentandosi così al mondo come uno dei pochi autori realmente indipendenti. Sotto questo punto di vista Incontri ravvicinati del terzo tipo non è un film qualsiasi, anzi, possiamo dire con certezza che si tratta di uno dei suoi quattro o cinque film più importanti (anche senza entrare nel merito del giudizio critico, che per altro non ha neanche bisogno di essere discusso), una di quelle opere per cui si può parlare di un prima e un dopo, non solo rispetto alla filmografia dell’autore, ma anche per il genere fantascientifico e per il cinema americano tout court.

Una delle cose più interessanti del film, andando per un attimo oltre il valore estetico, è il suo essere un’opera di cerniera, una sorta di ponte tra due decadi, tale da riprendere entrambe le anime della Nuova Hollywood, poggiando l’attenzione sia sui caratteri di sperimentazione che su quelli di ricostruzione. Non è un caso che a operare questa riflessione sia stato Spielberg e non altri tra i cosiddetti movie brats, ovvero quel gruppo di registi statunitensi grazie ai quali è nata la definizione di film d’arte negli Stati Uniti; una serie di autori che non a caso rappresenta la prima generazione ad aver studiato cinema all’università. La sua biografia (da sempre scisso tra teoria e pratica, università e cinema/televisione) e la sua filmografia ci danno l’input per analizzare retrospettivamente la sistematicità di un film come Incontri ravvicinati, un lavoro di liminare che mette insieme istanze legate al decennio che lo ha preceduto e altre che saranno tipiche del decennio che lo seguirà, senza mai dimenticare l’amore per il cinema classico, in particolare la lezione di John Ford. Nel film infatti lo sconfinato spazio americano diventa quel luogo di confine tra l’io e l’altro quella variazione sul tema della dialettica tra tame e wild che ha alimentato tanto cinema dell’autore di Sentieri selvaggi.

Incontri ravvicinati del terzo tipo costituisce per molti motivi il punto nodale di una specifica convergenza del cinema hollywoodiano; si tratta della pietra angolare del cinema di quel decennio, del turning point stilistico, contenutistico ed iconografico. Non una svolta radicale, bensì un’opera che incarna l’anima di un cinema che è stato e quella di un cinema che sarà. Considerare la datazione può essere interessante: Incontri ravvicinati del terzo tipo è del 1977, esattamente dieci anni dopo l’uscita di Gangster Story e Il laureato opere con le quali viene convenzionalmente fatta cominciare la stagione della Nuova Hollywood. Osservando bene il film sembra quasi che, precisamente a dieci anni dal suo inizio, Spielberg abbia voluto realizzare un’opera che, tra le altre cose, si ponesse anche come la sintesi finale di una stagione.

Prendiamo la rappresentazione della famiglia: il film di Spielberg da questo punto di vista si presenta come un raccoglitore tematico di istanze che hanno caratterizzato tante opere degli anni precedenti. La crisi del nucleo familiare come generatore di riflessioni individuali e come cartina di tornasole di una crisi a più ampia scala che ha rivestito tutto il decennio. In una delle prime sequenze del film, mentre il protagonista tenta di insegnare le frazioni al figlio attraverso la metafora di un trenino elettrico, la situazione esplode con l’arrivo della madre e il baccano creato dal resto della prole; il trenino deraglia, i giocattoli vengono presto rotti e il cinema (in sala Pinocchio prima, in televisione I dieci comandamenti poi) assurge al ruolo di evidenziatore delle personalità dei componenti della famiglia mettendone a fuoco i conflitti. Le vicissitudini narrative dell’opera portano infatti ad un’inevitabile scissione della coppia che si ripercuote sull’equilibrio dei figli e sulla condizione psicofisica dei due genitori, i quali ognuno per la propria strada subiscono le conseguenze dell’insanabile crisi familiare che li vede protagonisti. L’isteria e la fuga saranno a quel punto le uniche soluzioni alla detonazione di tensioni e conflitti per lungo tempo rimasti allo stato di latenza. La fuga in solitudine segnatamente al contesto cinematografico in cui si pone, non può non richiamare il personaggio archetipico de Il laureato: sia Dustin Hoffman sia Richard Dreyfuss mettono in scena alla perfezione quella voglia di evasione che nel caso del film di Spielberg troverà finalmente il suo eccezionale punto d’arrivo.

Sebbene il quarto film di Spielberg sia incentrato principalmente su due personaggi maschili ossia Roy Neary e Claude Lacombe, i ruoli femminili non sono da sottovalutare. Le due donne che fanno parte del gruppo principale di personaggi, Ronnie Neary moglie di Roy e Jillian Guiler, rappresentano due figure di non secondaria importanza. L’analisi del loro arco drammatico è fondamentale alla comprensione dell’opera, la cui trama è determinata anche da queste due donne. Entrambe – come il protagonista stesso e come tanti altri del cinema dell’autore – sono personaggi ordinari messi dal destino in circostanze straordinarie. Le loro reazioni sono specularmente antitetiche: sia l’una sia l’altra vedono il loro punto di riferimento familiare (che sia il marito o il figlio) affascinato e ossessionato dalle manifestazioni extraterrestri. A ciò conseguono la reazione conservatrice, isterica ed impaurita della moglie di Roy e quella curiosa e coraggiosa di Jillian. Le loro vite diegetiche, per motivi ovviamente diversi, si incrociano con quella di Roy e l’approccio all’incontro con l’altro da sé è determinante nell’economia del loro rispettivo percorso narrativo. Ancor più importante, probabilmente, è inquadrare la rappresentazione che Spielberg offre di queste due figure in quanto donne all’interno di un cinema che fa spesso di questa e della sua condizione un caso d’indagine privilegiato. In un periodo segnato indelebilmente da battaglie sociali e lotte per i diritti civili il movimento femminista ha un ruolo di primo piano. L’emancipazione femminile, sia sociale sia sessuale, ha notevole risonanza mediatica e il cinema della New Hollywood si fa portatore di questo testimone. È in questo senso che Ronnie e Jillian rappresentano due facce della stessa medaglia, due volti femminili antitetici che incarnano i due antipodi della donna di quegli anni, sintesi ultime di tante condizioni femminili analizzate dal cinema di quel decennio, basti pensare solo alla Gena Rowlands di Una moglie o alla Faye Dunaway di Gangster Story.

Dal punto di vista dell’indagine sociologica Incontri ravvicinati riprede quel filone che dal Watergate in poi ha dato vita ai cosiddetti “paranoia movie”, ovvero quelle opere che sottolineavano una scollamento totale tra il soggetto e le istituzioni che dovrebbero governarlo; un senso di sfiducia radicale che riflette l’enorme contestazione americana (il cosiddetto fronte interno) che dai movimenti di Berkeley passa per il Vietnam e arriva a Nixon. Incontri ravvicinati del terzo tipo mette in ordine le pedine e con l’arrivo dell’alieno, della presenza inspiegabile, mette in scena un’ennesima situazione di panico proponendo nuovamente la divergenza tra una visione prettamente umanista di alcuni soggetti protagonisti e per converso una quasi totalitaria, incapace di guardare e ascoltare davvero, incarnata dalle istituzioni. Incontri ravvicinati del terzo tipo cerca, tra le altre cose, di mettere in luce anche questo. In mezzo al caleidoscopio tematico del quarto film di Spielberg esiste l’intenzione di mostrare il rapporto tra cittadino e verità, ovvero una dialettica compromessa, alterata, distorta dai poteri forti, dal controllo sociale.

L’altro lato della luna racconta che il quarto film di Spielberg per certi versi sembra essere molto avanti rispetto agli anni in cui è stato girato, sembra parlare di un cinema che ancora non esiste e di mondi che saranno e non sono ancora, con un linguaggio completamente diverso. Il 1977 rappresenta da questo punto di vista l’anno cardine della decade, una svolta nella storia del cinema hollywoodiano quanto se non più determinante di quel 1979/80 che ha visto il crollo del sistema produttivo a seguito della disfatta economica de I cancelli del cielo. L’uscita in sala del film di Spielberg e di Star Wars crea una scossa tellurica micidiale, dopo la quale ci saranno sì grandi capolavori con lo spirito di un tempo (Apocalypse Now, ad esempio), ma la tendenza verso una ricostruzione industriale sarà incontrovertibile.

Una delle caratteristiche che però meno salta all’occhio è la presenza di François Truffaut come interprete del film, scelta fondamentale di Spielberg dietro la quale si cela tutto quel senso ci cesura, quell’identità “a scavalco” del film che dagli anni Settanta passa agli Ottanta, anche attraverso la figura di mediatore, non soltanto diegetico, del gradissimo regista francese. Sebbene tutti i movie brats abbiano visto nella Nouvelle Vague francese un referente fondamentale, con Truffaut il discorso è molto diverso perché il rapporto tra i due autori è decisamente stretto, soprattutto per via delle affinità che uniscono due poetiche per certi versi molto simili. Non a caso il ruolo dello scienziato Lacombe è in totale continuità caratteriale e comportamentale con quello del Dottor Jean Itard, protagonista de Il ragazzo selvaggio interpretato da Truffaut nel 1970. Non solo, nel finale di Incontri ravvicinati Lacombe diventa, in maniera nemmeno troppo celata, un alter ego del regista, dirigendo l’incontro con gli extraterrestri. François Truffaut è anche colui che letteralmente comunica con l’alieno, colui che vive consapevolmente il contatto. La manifestazione aliena avviene sotto un’accecante luce che rivela la meraviglia dell’alterità. Tra le tante metafore cinematografiche che il film dimostra di possedere c’è quella per la quale Truffaut, cinefilo e critico cinematografico prima del passaggio alla regia, studia e conosce la rivelazione extraterrestre così come fa con quella cinematografica. L’analogia tra il fascio di luce che accompagna l’avvento dell’alterità e quello che proietta agli occhi dello spettatore la meraviglia del cinema è lampante e il ruolo di interprete di Truffaut è in questo caso il collante tra le due rivelazioni.

Il legame poi tra il regista francese e Spielberg si articola attorno a una questione chiave, non solo per i due autori, ma per il mutamento del cinema di quel decennio: l’infanzia. Fantascienza e infanzia, nella loro interazione portano a un punto di grandissima innovazione che vede in Incontri ravvicinati del terzo tipo una tappa di grandissima sperimentazione, sia visiva sia narrativa. Roy prima ancora di essere un padre di famiglia è un adulto bambino, colui che per trovare se stesso ha bisogno di regredire (cioè progredire) a una dimensione infantile, ed abbracciare l’inspiegabile con gli occhi di un tempo e che ora si è accorto di non avere più. Attraverso la sua vettoriale figura il film lavora sulla fantascienza trasformandola in una fiabascienza, un racconto che non rinuncia mai a toccare le corde del bildungsroman e che vede nell’incontro con la figura dell’alieno un momento di grandissima potenza metaforica e non solo. La rivoluzione è compiuta, l’altro da sé assume forme totalmente nuove: in un attimo appaiono lontanissimi i tempi dei camion e degli squali, perché oggi, nel 1977, Spielberg ci insegna che quella paura va risolta attraverso se stessi, attraverso l’incontro con la parte più pura, fertile e vivace della propria persona, imparando ad abbracciare l’altro e l’altrove (simboli forieri di infiniti referenti possibili) attraverso l’arte, come sottolineato da quelle indimenticabili cinque note che caratterizzano tutto il finale del film.

A conti fatti è proprio questa posizione di cerniera che fa di Incontri ravvicinati del terzo tipo un film irripetibile nella filmografia dell’autore, quella eccezionale capacità di sintesi per quanto riguarda il decennio trascorso e precognitiva oltre che anticipatrice per ciò che concerne il cinema degli anni Ottanta. Un film che ancora oggi possiede una potenza disarmante, in particolare per il messaggio di pace che comunica attraverso una grande riflessione sull’importanza dell’arte. Un’opera che ci ricorda ancora una volta la grandezza del sodalizio con John Williams (il quale quell’anno comporrà anche le musiche di Star Wars) e con Carlo Rambaldi (autore di questi alieni e di tanti altri a venire). Non finiremo mai di essere grati a Spielberg per Incontri ravvicinati del terzo tipo, per quell’ossessione verso la Torre del Diavolo replicata in tutte le forme e con tutte le paste, per quelle immagini brulicanti di colore e meraviglia, e per quel nuovo sguardo sul mondo che ci ha insegnato a non aver più paura di cosa c’è dietro la porta chiusa.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 30/10/2015

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