Dossier Steven Spielberg / 12 - Schindler's List

Il capolavoro di Spielberg affronta con impareggiabile equilibrio il problema linguistico dell'enormità narrativa dell'Olocausto ebraico, generando uno fra i film fondamentali della storia del cinema

Da quando è uscito nei cinema, più di vent’anni fa, Schindler’s List si è contraddistinto come il film sull’Olocausto più equilibrato linguisticamente: non il più atroce, per quanto il suo contenuto sia tragico, né il più retorico, senza per questo rinunciare alla metafora morale, né il più asciutto, malgrado lo stile sobrio e rigoroso. D’altra parte, è oramai parte integrante nella nostra cultura il problema del rapporto fra campi di concentramento e linguaggio, allorché è sorta la natura paradossalmente indicibile e narrativa di una storia che non trova parole adatte a descriverla ma che pretende allo stesso tempo di essere raccontata. Il problema di un approccio allo sterminio ebraico non sta tanto nei numeri – altri genocidi hanno perpetrato cifre più alte di vittime – quanto nell’elevazione dell’omicidio come prodotto industriale, eliminazione meccanica, reiterata, quasi avulsa dall’odio che ne promosse la nascita. La storia dell’umanità è costellata da azioni barbare e crudeli, e tuttora ne è ben lontana dal riuscire a farne a meno, ma ad Auschwitz per la prima volta si teorizzò e si mise in pratica lo sterminio di massa concependolo in forma d’industria organizzata, il cui manufatto finale era costituito da cadaveri e cenere.

L’industria della morte iniziava dalle persone, dai loro nomi e dagli oggetti che possedevano: così, Schindler’s List non può che partire dai nomi che, inizialmente destinati a una lista della morte entro una letale logica industriale, con un capovolgimento narrativo verranno salvati da una lista e protetti in una fabbrica. Lo sguardo attento di Steven Spielberg sulle facce straordinariamente umane non solo dei personaggi, ma delle stesse comparse, ha il doppio scopo di descrivere l’opera nazista di spoliazione fisica e mentale - con la perdita della casa, dei propri oggetti personali, di denti e capelli, di tutto ciò che insomma genera identità – ma anche, con un movimento inverso, di restituire la dignità perduta nella riduzione da persona a corpo.

La macrostoria del film contiene in sé numerosissime microstorie della vita nel ghetto e nei campi di prigionia, un’umanità complessa e particolare su cui si stagliano le due figure invece nettamente contrastanti e di Oskar Schindler e di Amon Göth. L’eccezionalità del protagonista è ovviamente legata alla sua natura ambigua di un marito adultero, iscritto al partito nazista, desideroso di sfruttare la guerra e la caduta in disgrazia degli ebrei per farci una montagna di soldi. Niente lo distingue dalle milioni di persone nemmeno cattive, soltanto meschine, che preferirono far finta di niente, o guadagnare dalla deportazione ebraica, se non fosse che a un certo punto Schindler cambia idea, e rischia tutto. L’uomo comune diviene un salvatore.

Al contrario Amon è l’incarnazione del male assoluto, la cattiveria immotivata che distrugge per il gusto di farlo, ed è nella sua attrazione irresistibile per il carisma di Schindler, e la vulnerabilità di Helene, la cameriera ebraica che diviene sua vittima e oggetto di desiderio, che in Schindler’s List si struttura, sopra il racconto preciso e chiaro dello sterminio, la metafora della mai completa vittoria del male.

Altri film sul tema dell’Olocausto hanno riproposto, in altri termini, la vulnerabilità del male assoluto, implacabile membrana che però presenta interstizi in cui possono penetrare sentimenti umani. Come a dire che la natura umana non può in nessun modo scegliere una parte di sé ed escludere l’altra. Ne Il portiere di notte di Liliana Cavani un gerarca nazista ama in modo viscerale, crudele ma anche tenerissimo una prigioniera ebrea, e La vita è bella di Roberto Benigni, opera assurda e semplicistica in maniera quasi offensiva dal punto di vista storico, diviene racconto altamente morale con la sola idea rivoluzionaria di ostinarsi ad amare anche dentro il sistema dei campi di sterminio. Così, la debolezza di Amon sta nel suo provare sentimenti, suo malgrado, verso la vittima che puntualmente brutalizza.

Il male non può vincere per sempre; il bene può risorgere; chiunque, anche l’essere più imperfetto, può fare il primo passo. Un messaggio positivo per una storia relativamente positiva. D’altra parte, Schindler’s List è una storia di sopravvissuti, e Spielberg adegua il linguaggio cinematografico al soggetto. Lo stile del film è diviso fra scene in esterni caratterizzate da un bianco e nero misurato e interni – le stanze dove si decide la vita e la morte – caratterizzati da forti contrasti, con la luce e il buio ad avvolgere rispettivamente salvatori e carnefici. C’è talvolta, qua e là, perfino un’atmosfera da commedia: tutto viene calibrato con tocco di maestro per restituire una vicenda terribile, commovente, a tratti godibile, a tratti insopportabile. Ove il realismo narrativo si intreccia alla metafora umana, Schindler List si imbatte però nel suo limite linguistico, ovvero ciò che non può descrivere. Già a partire dalla scelta della pellicola in bianco e nero si intravede il pudore di non poter mostrare gli eventi come qualcosa di troppo reale, vicino alla vita degli spettatori, ma ogni storia di sopravvissuti sottintende sempre alla tragedia di chi non ce l’ha fatta, e il rimorso finale di Schindler per gli sforzi non compiuti sottintende esattamente a questo. Primo Levi definì “sommersi” le milioni di persone morte nei campi, nelle camere a gas, considerandoli i veri testimoni integrali del genocidio; i salvati, come lui erano “una minoranza anomala oltre che esigua” (I sommersi e i salvati). Ciò che può fare Spielberg è mostrare le tante esecuzioni sommarie, l’evacuazione del ghetto, e infine i cadaveri disseppelliti e bruciati a Varsavia un anno dopo; ma non può rivelare le camere a gas, il simbolo definitivo dell’industria di morte nazista. Con una mossa audacissima può solo farci credere per qualche secondo, insieme ai personaggi, di esservi entrati, salvo strappare il loro (e il nostro) sollievo al fuoriuscire dell’acqua dalla docce, nella sequenza più straordinaria di tutto il film, in cui l’orrore della crudeltà umana si accompagna con l’istintivo abbracciarsi e tenersi strette delle donne in attesa della morte. Tutta la natura umana inscritta in una singola scena.

Se l’immagine non può accogliere fino in fondo il destino dei sommersi, e riesce solo a mostrare il profilo scuro di un forno crematorio, la metafora può contenere reinterpretandola la tragedia: la bambina col cappotto rosso, unico elemento colorato in tutto un film in bianco e nero – assieme a due candele e alla sequenza finale della visita dei veri sopravvissuti alla tomba di Schindler – che passa innocente fra spari e urla, dolce e paffuta, per poi sfilare più tardi mezza decomposta con lo stesso abito assurdamente, sotto gli occhi di uno sconvolto Oskar Schindler, è il morto più devastante di tutta Schindler’s List, perché è una metafora di qualcosa di molto più grande che non può stare nello schermo. L’espediente narrativo del colore, in fondo un’idea cinematografica semplicissima, rappresenta con una macchia di rosso vivace qualcosa che può essere solo riassunto, intuito, qualcosa che va espresso per un’esigenza morale, ritraendosi però di fronte alla nettezza di parole e immagini più esplicite.

B/n e colore, luce e ombra, bene e male, commedia e tragedia, realtà e metafora, i sommersi e i salvati. L’equilibrio del film, e la sua forza, sta nel non scegliere un concetto preciso senza mostrare anche il suo opposto, conscio del problema linguistico che fa di ogni discorso sull’argomento una riflessione monca, imprecisa, mai completa. Ciò non toglie che sono stati girati e verranno girati in futuro altri film più coraggiosi e linguisticamente rivoluzionari sul tema: basta pensare all’assenza di ricostruzioni visive per dar spazio solo ai testimoni reali, volti che avevano davvero visto ciò che nessun film potrà completamente restituire, in Shoah di Claude Lanzmann, o all’avvicinamento romanzato più estremo - e quasi insopportabile - ai luoghi delle camere gas ne Il figlio di Saul, di László Nemes, vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultimo festival di Cannes. Nessun opera come quella di Spielberg saprà però contenere in sé con la stessa fermezza gli stilemi del linguaggio cinematografico e il loro contemporaneo annichilimento, laddove la storia dell’uomo sfida le parole che egli stesso ha forgiato per capire il mondo, distruggendole senza smettere però di supplicarle.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 10/12/2015

Articoli correlati

Ultimi della categoria