Dossier Lisandro Alonso / 4 - Fantasma

Ciò che interessa ad Alonso non è minimamente la riflessione sulla propria immagine o sui meccanismi di identificazione, ma è la vita di Vargas che vive quel tempo.

L’abissale plongée che apre Los Muertos disegna ogni coordinata del cinema di Lisandro Alonso. L’immagine è organicamente popolata dai vivi e dai morti, dalla natura e dallo sguardo, dall’immanente e dal divino. Avvertiamo una perturbante indistinzione di pulsioni in quel piano sequenza, l’immagine è un tutto-presente che non trova senso se non nella “registrazione” di questo tutto-presente che è già dato. Alonso non rinnega certo i suoi modelli – Rossellini (ovviamente….), Antonioni (con il cortometraggio Dos en la vereda a certificare una filiazione), il primo Wenders nel corso del tempo (con la citazione fatta ne La Libertad) – ma continua a spogliare l’inquadratura dall’innegabile fascino autoriale dei “maestri” per declinare furiosamente il suo cinema al presente. Ecco: il cinema di Alonso ragiona incredibilmente sull’oggi e sull’imperante anestesia dell’immagine diventando politico nel suo porsi come immagine-e-basta, emersione dell’essere nella più pura apparenza. I suoi personaggi sono il contesto, l’atmosfera è il film, l’astrattezza non è mai cercata perché c’è già. Il cinema è fotogenia diceva qualcuno tanto tempo fa...

E allora cos’è (il) Fantasma per Lisandro Alonso? Film centrale nella sua carriera, non c’è dubbio, dove i protagonisti dei suoi due precedenti lungometraggi (il taglialegna e l’ex detenuto Vargas) tornano come testimoni silenti muovendosi in un teatro cittadino che ha dedicato una rassegna al loro regista: Lisandro Alonso. Metacinema si sarebbe detto qualche anno fa, non c’è dubbio! Se così è, però, Fantasma ci appare come il meno metacinematografico dei film metacinematografici, perché il continuo interfacciarsi di Vargas con le locandine di Los Muertos o il suo “specchiarsi” nel grande schermo (in una sala vuota, tra l’altro…), diventa l’ennesimo rilancio di Alonso su un cinema qui e ora che non ha un senso se posto nel dopo. Pensiamo alle sterili e ironiche parole dette a Vargas (le uniche pronunciate in questo film) alla fine della proiezione di Los Muertos:

“vorrei complimentarmi per il film.”

“Le è piaciuto?”

“Si, la parte del Rio, certo…”

“e lei, come si sente?”

“Bah a me è piaciuto rivedermi sullo schermo, è una cosa carina…”.

Persino in Fantasma, pertanto, ciò che interessa ad Alonso non è minimamente la riflessione sulla propria immagine o sui meccanismi di identificazione, ma è la vita di Vargas che vive quel tempo. La prima inquadratura del film lo coglie in un ennesimo carcere, una sorta di teca ricolma di scarpe, dalla quale evadere e cercare la libertad nei lunghissimi fotogrammi in nero che seguono. Inizia da lì il lento andare a zonzo di una vita che scorre come la pellicola, libera da ogni vincolo di azione/reazione: Vargas e il taglialegna (ancora più enigmatico e “marginale” qui) segnano di nuovo un movimento fine a se stesso. Il cinema di Alonso distrugge ogni sovrastruttura narrativa e simbolica e gioca la sua partita nella sopravvivenza in ogni singola immagine, perché il film (anche quando è cinema-nel-cinema) non può che essere concepito come il momento presente. Questo è forse l’atto più radicale di “finestra sul mondo” aperta dal cinema contemporaneo, che fa di Alonso probabilmente il più convinto dei cineasti baziniani “sopravvissuti”.

Insomma: se l’immagine sorge nel rapporto sensibile tra il corpo e le cose, allora il cinema di Alonso configura (in)volontariamente una miracolosa fenomenologia del mondo. Fantasma diventa il film definitivo sulla fusione tra reale e immaginario… e forse, ripensandoci bene, quella sala non è poi così vuota: guardandola attentamente, tra quelle sedie vacanti, la si può (ri)scoprire piena di spettatori, noi, che viviamo/guardiamo Vargas vivere/guardare e far sopravvivere il cinema. Lo schermo non c’è più, la finestra è aperta, i corpi vivi siamo solo noi.

Autore: Pietro Masciullo
Pubblicato il 27/02/2015

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