Dossier Laura Poitras \ 1 - Citizenfour

Un'amara verità dal contenuto imprescindibile raccontata nella forma propria del reportage di prima linea, un documentario postmoderno che si pone tra il Cinéma Vérité e il Kinoglatz.

«Si tratta di fare un cinema verità che superi l’opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, bisogna fare un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva.»

Edgar Morin - France Observateur

Citizenfour, documentario coraggioso dell’audace documentarista (e giornalista) statunitense Laura Poitras, è un’opera imprescindibile da qualsivoglia visione, fondamentalmente per due ragioni: sia per l’argomento scottante che viene trattato (di valenza storica), ma soprattutto per la forma finale che l’argomento arriva ad assumere. Questi due aspetti verranno analizzati in questa recensione in maniera sequenziale (o complementare), aspetti questi che si lasciano vivere in sincrono durante la visione, con l’attenzione del lettore rivolta a considerarli come un unicum documentale ed audiovisivo. Qui, per semplicità argomentativa, verranno affrontati separatamente.

Vincitore dell’Oscar alla passata premiazione e terza ed ultima parte di una trilogia che si sofferma sugli aspetti antiliberali ed antidemocratici degli Stati Uniti successivi all’11 settembre, e che comprende nel trittico - che esamineremo in questo nostro mini dossier - My Country, My Country e The Oath. L’intenzione di Citizenfour nasce da un corto documentario preliminare dal titolo The Program (2012). Questo lavoro è un Op-Doc (opinionated documentaries) e segue, attraverso la formula dell’intervista frontale, le dichiarazioni di William Binney, un veterano che per trentadue anni ha lavorato per la NSA (National Security Agency) che rende note informazioni riservate (whistlebowler) condividendo, oltre il vincolo di segretezza, dettagli sul progetto Stellar Wind che ha aiutato a costruire. Progetto nato nel 2001 allo scopo spionistico industriale estero e poi usato internamente sulla popolazione americana ad un livello massificato.

Sono questi i presupposti iniziali che danno vita a Citizenfour. Il documentario della Proitas segue in tempo reale le vicende legate alle esternazioni di Edward Snowden, ex tecnico della CIA ed ex collaboratore della Booz Allen Hamilton (azienda di tecnologia informatica consulente della NSA), che sostiene (e conferma con prove inconfutabili) l’esistenza di un programma governativo d’intelligence spionistico segreto teso all’immagazzinamento d’informazioni private ad un livello massificato ed internazionale. Informazioni che violano la privacy del singolo individuo senza alcuno scopo legato all’effettiva ed approvata politica di sicurezza nazionale, ma che creano un immenso storage di dati informatici in grado di essere ripescati attraverso l’uso di ricerche retroattive. Procedimento questo totalmente antilibertario ed antidemocratico.

Immagine rimossa.

Citizenfour documenta e filma tutti i passaggi avvenuti nella fuoriuscita di notizie, dall’iniziale contatto tra Snowden e la Proitas, avvenuto attraverso uno scambio di mail criptate, al peso effettivo della notizia, fino alla decisione del miglior modo possibile per poterla divulgare (metodo discusso apertamente nel dialogo all’hotel di Hong Kong tra Snowden, la Proitas, il giornalista investigativo Glenn Greenwald ed il reporter del The Guardian Ewen MacAskill) che riuscisse a salvaguardare l’integrità (fisica e non solo) della sua fonte e dei giornalisti in procinto di divulgare.

Questa è storia contemporanea, per ulteriori informazioni relative all’argomento (necessarie ma che in Italia pochi conoscono tenendosi a debita distanza dalla loro libera condivisione) consiglio la visione del documentario. Passiamo al livello che a noi più interessa, quello relativo all’identità cinematografica dello stesso. La Proitas riesce a fare qualcosa che finora era stato solamente teorizzato, o almeno, qualcosa che è stato ampiamente realizzato in passato, ma mai riproposto così chiaramente attraverso un modello documentale tanto contemporaneo ed innovativo. Per cogliere appieno questo passaggio occorre iniziare un percorso perlopiù teorico.

Partendo dalle teorie vertoviane riferite al cine-occhio, possiamo confrontarne la definizione data dal regista e teorico russo con la forma finale assunta dal lavoro della Proitas, al riguardo di quella possibilità di cattura di una realtà spogliata da ogni patina finzionale e restituita quindi come accadimento reale, registrato da un punto di vista "meccanico" – oggettivo e storico per la Proitas molto più fazioso per Vertov, se lo si considera iscritto nel periodo storico d’appartenenza, naturalmente. «Il Kinoglaz come possibilità di rendere visibile l’invisibile, di rendere chiaro ciò che è oscuro, palese ciò che è nascosto, di smascherare ciò che è celato - di trasformare la finzione in realtà, di fare della menzogna verità [...] un tentativo di mostrare sullo schermo la verità: la cineverità». Se si riuscisse a decontestualizzare la teoria dal contesto, la sensazione che spettatorialmente arriva riguardo a Citizenfour è la stessa "cineverità" teorizzata dal regista russo. La regista riesce ad inserire il cine-occhio all’interno della stanza di un hotel ad Hong Kong mentre, in tempo reale, di fronte all’obiettivo si realizza la Storia che entrerà a far parte dei manuali storiografici futuri. Nessuna messa in scena, nessun attore, nessun trucco o maschere, solamente la deposizione ed i dialoghi propri di un avvenimento realmente accaduto e poi montato in postproduzione.

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L’ansia spettatoriale che si vive vedendo il documentario è la stessa (o meglio, la più simile possibile, considerando la mediazione dello schermo e la visione contemporanea molto più smaliziata rispetto ai primi spettatori del treno dei Lumiere) che gli stessi protagonisti stanno in quel momento vivendo. L’occhio dello spettatore è incluso in uno spazio limitato, oggettivo e storico. Le conseguenze di certe rivelazioni sono vissute sulla stessa pelle dello spettatore che può osservarle in maniera privilegiata (e voyeuristica) oltre uno schermo, e questo, se da un lato separa e distanzia, dall’altro aumenta l’intensità del mostrato potendo usufruire della grammatica del montaggio. Gli otto giorni dell’intervista ad Hong Kong, la spystory che precede e segue il loro segreto incontro, l’importanza delle rivelazioni, il boom mediatico globale, la fuga di Snowden e le conseguenze del suo gesto eroico, arrivano a creare una realtà altra, che sembra uscire dalla penna di un romanziere, ma che così non è, se non fosse per la necessità spettatoriale di sincronizzarsi con la realtà storica effettiva ed oggettiva, spaventando e serrando il respiro molto più rispetto ad un evento dichiaratamente finzionale. E’ interessante notare come dopo la visione molti spettatori hanno nell’immediato riconosciuto un filo narrativo di finzione che comparasse la realtà ad una finzione ad essi vicina, nella tipica espressione: "Come un romanzo di Le Carrè". Questo ultimo aspetto è sicuramente legato alla (in)capacità contemporanea di straniamento dalla realtà oggettiva, fattore dovuto al nostro background visivo molto più smaliziato rispetto allo spettatore di trenta o quarant’anni fa - per non parlare di quanto siamo distanti dai primi spettatori delle immagini in movimento - che spesso non ci fa credere immediatamente a quello che vediamo, cercando parallelismi con qualcosa di puramente artificiale (nella sua accezione di artificio intellettuale) che conosciamo bene e che riesca a giustificarlo iscrivendolo in una narrazione tanto reale (e possibile) quanto fantastica e preconfezionata.

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Quello che la Proitas riesce a fare è soggettivizzare un evento oggettivo. Le immagini e la costruzione del documentario iscrivono lo spettatore all’interno di un universo-sensazione totalmente reale e storico. Un documentario postmoderno nel vero senso del termine. Un lavoro che sorpassa la definizione di documentario in quanto certamente documenta e ripropone, ma che riesce anche nell’intento (finòra utopistico) di farlo in prima persona ed in prima linea. Non c’è una mediazione tra la realtà e la sua documentazione, si è lì e la si sta vivendo come uno spettatore che riesce a prenderne, finalmente, parte attivamente.

Attraverso l’agilità (digitale) del mezzo la Proitas rende lo spettatore parte integrante dell’opera, definendolo testimone dell’evento che sta accadendo e non che è accaduto, in una simultaneità che da un lato informa lo spettatore sulla violazione governativa della privacy del suo cittadino, mentre dall’altro lo rende partecipe attivo di questo processo invasivo ed antidemocratico. La realtà non si sta producendo mentre la si racconta ma sta riproducendo qualcosa che, qui ed ora, sta avvenendo. Riuscendo così ad unire sia i costrutti teorici del cinéma vérité di Morin (legato quindi ad una narrazione espressiva, nel nostro caso, propria della spystory) che l’immediatezza del cinema diretto di Ruspoli (legato alla ripresa diretta dell’evento reale, vero e simultaneo).

Se dopo la visione comincerete a smacchiare la cache del vostro computer con la varechina, cercando su google solo diminutivi o vezzeggiativi dolci ed in rima che terminano per -ini, e se ad ogni mail o massaggio facebook che mandate lo spedite da un Ip sconosciuto, sentendo elicotteri volare sopra la vostra testa, o telecamere che per strada si voltano ad ogni vostro passaggio; ridotti così ad avere incubi notturni di forze speciali che vi sfondano la porta di casa mentre dormite, bene, Citizenfour vi ha suggerito entrambi gli aspetti qui presi in esame, costruendo dentro di voi una realtà possibile e vera ed iniettandola in voi attraverso una siringa carica di vere immagini sensazione, puramente documentali, reali e storiche.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 10/06/2015

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