Dossier Joe Dante / 12 - La seconda guerra civile americana

L'identità della realtà sul palcoscenico del mediale. Dentro al tubo catodico e nella tana della televisione.

Un giorno, nel prossimo futuro

In uno scenario dove l’America è diventata una polveriera multietnica, l’immigrazione ha raggiunto i livelli limite della coesione sociale. Il Rhode Island è diventato una zona a massiccia immigrazione cinese causata da una terribile carestia in Cina; a Los Angeles c’è un sindaco ispanico occupato (e sotto attacco) in problemi interni di immigrazione messicana e guerre di strada per la rivendicazione di diritti ed integrazione dei club dei neri islamici. Gli indiani Sioux chiudono le frontiere della loro riserva, l’Alabama ha un senatore indiano, il Texas e Las Vegas sono domini ispanici. In questo tragico scenario di un’America in deflagrazione, l’India fa esplodere un ordigno nucleare sul Pakistan; migliaia di bambini rifugiati, coordinati dalla missione di soccorso dell’associazione umanitaria "Give To Children", partono in direzione dell’Idaho. Lo stato federato, il cui governatore è interpretato da un bravissimo Beau Bridges, chiude le frontiere e si prepara a sfidare gli Stati Uniti d’America ed il suo Presidente in persona, Phil Artman, dando inizio ad una Seconda guerra civile americana.

Non sempre i fatti conducono alla verità, questo è l’avvertimento iniziale di un vecchio e saggio reporter "ante digitalis", uno scafato e malinconico James Earl Jones che ci mette in guardia dalla fallace verità messa in scena dai nuovi media. Dopo averla usata, oltrepassata, criticata, derisa, esplosa, Joe Dante scende nella tana della televisione e quel che ci mostra è un circo gaglioffo e cinico di palcoscenici e prime donne, universo digitale ed onnicomprensivo di occhi composti da schermi televisivi, luogo di immagini e luogo di montaggio, dove la verità viene deturpata da una strumentalizzazione perpetua. Fin dalla scena iniziale capiamo che l’universo di News Net è il palcoscenico principale dal quale dirigere l’orchestra degli eventi. Non sono le stanze private della casa bianca, piene di lobbistici pupari e presidenti pupazzi a prendere decisioni. Non sono neanche le stanze calde d’amore dell’ufficio federale, dove si consuma un amore incestuoso tra due elementi della stessa famiglia: razzismo ed immigrazione. La realtà e le scelte politiche di una nazione vengono filtrate, accumulate, guardate e scelte da un regista, una divinità che associa e monta, determinando i ritmi e le trame dell’intero Paese.

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Grazie a Dio per l’arroganza e l’avidità se no ci ritroveremmo a fare televendite, sento odore di grossi ascolti.

Queste sono le parole del vertice di tutto il meccanismo mediale (e reale) contenuto in un’unica persona (il direttore di News NetDan Hedaya), una sola mente razionale e spietata nel determinare l’indice di ascolto, l’occhio supremo di una plutocrazia mediatica basata sulla regola sempre buona delle Tre P.: Poppe Poppanti Pianto. Abili manipolatori dello share coordineranno, agendo direttamente sulla Storia, la fitta trama di eventi selezionati in un palinsesto ben preciso, e forzando la mano, riusciranno a far atterrare l’aereo di piccoli profughi in uno spazio da prime time. Il rigetto televisivo espresso dall’interferenza del segnale (caratteristica compulsiva e di diniego, firma propria del cinema di Dante), impedirà all’unico vero burattinaio mediatico di avere puliti ed in diretta quegli orfani promossi, dal pietismo dello spettatore medio, a target principale di share. Il principio dell’immagine ciarliera e ingannatrice appare ben chiaro nel personaggio del lobbista (autodefinitosi agevolatore politico – James Coburn) che detiene il vero potere della coercizione mediatica del finanziamento privato basata sull’apparenza: gli Americani votano più per il fumo che per l’arrosto, sentenzierà il suo personaggio. Pronto sostenitore dell’inazione nella difficoltà politica (l’azione migliore è la non azione) in contrasto ideologico con lo spirito d’azione proprio del carattere repubblicano del presidente americano. Quest’ultimo è un classico esempio di marionetta, propria del cinema di Dante e, in questo caso, elevato dal suo carattere caricaturale e dal potere politico in esso riflesso a personificazione ideale del suo universo pupazzesco. Un contenitore vuoto dentro il quale fare echeggiare i motti ed i vari temperamenti di presidenti americani che hanno fatto la storia politica del loro Paese. Dall’altra parte della barricata mediatica, Dante ci presenta un governatore federale misogino e razzista. Fermo sostenitore della sacralità discriminatoria contenuta nei confini del suo Idaho, nazione governata da fanatici guerrafondai organizzati in bande paramilitari, è un personaggio che vive di profonde contraddizioni. Uomo machista e testardo che intende la politica solo come un’altra forma di sesso, amerà (seppur sposato) una inviata televisiva messicana, incurante della gravità degli eventi a cui ha dato inizio. Un giornalista di News Net esclamerà: stiamo invadendo l’Idaho...giusto per un pugno di orfani!

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Dante torna prepotentemente a dipingere una realtà forte ed in agitazione come quella della macchina mediatica, dove le donne continuano ad essere delle subalterne sulle quali sfogare le zavorre machiste di un meccanismo (gioco) prettamente maschile. Un partita che si gioca su un terreno di guerra a stelle e strisce, dove soldati americani combattono contro altri soldati americani, dove Alamo brucia nella rivalsa del popolo messicano (sostenuto dalle sue minoranze interne al territorio americano). Il conflitto sarà combattuto sul campo da due opposte e ciarliere fazioni militari, capitanate da un colonnello (l’inseparabile Dick Miller) ed un generale (Brian Keith) con vecchi rancori personali non digeriti. Nella tana della televisione è nascosto il potere dell’informazione e della disinformazione che, massificando l’opinione pubblica televisiva, riesce a far leva sulla politica. Un paese gestito dai fili del puparo massmediatico su un palcoscenico televisivo grande quanto un teatro catodico di marionette, dove si combatte una guerra a suon di interviste, dove il destino del Paese è legato alle condizioni dettate dall’audience, dove un’ipotetica soap opera come Figli, Figli miei ha in mano le vere sorti dell’intera nazione. Un’opera d’arte incompleta, a volte tragedia, a volte commedia, a volte farsa. Con questo sintetico epitaffio, summa stilistica di tutto il cinema di Joe Dante, si chiude un film dove l’inestricabile formato televisivo è stato raccontato ed ha raccontato, attraverso un montaggio sia interno che esterno al meccanismo televisivo, e dove sembra trasparire l’intenzione di rappresentare l’enunciato attraverso la forma dell’enunciatore che già lo rappresenta. Un dentro all’immagine televisiva senza un fuori ben definito, una realtà oggettiva che procede di pari passo con la notizia soggettiva in un continuo interscambio di sguardi e posizioni. Oltre al cameo di Roger Corman possiamo sottolineare l’uso di un’altra firma stilistica propria del regista, basata sull’ingigantimento della dimensione ludica dell’immagine con il suo sconfinamento nella realtà e viceversa, uno schermo troppo piccolo per contenere la forza di un’immagine troppo grande; asimmetria concretizzata dall’espediente del carro armato che distrugge un televisore gigante dove vengono trasmesse le imprese belliche di John Wayne, quindi, un’immagine che sconfina nella realtà ed una realtà che schiaccia (letteralmente) l’immagine stessa. Un film potente e contestatorio, affilato e ben orchestrato, un film televisivo ( ma passato in sala) lucido, caustico e divertente, una delle vette cinematografiche maggiori raggiunte in tutto il suo cinema.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 24/11/2014

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