C'era una volta a New York

di James Gray

Il melodramma dorato di James Gray come lampante esempio di una classicità che continuamente rifugge da sé stessa.

C'era una volta a New York - recensione film James Gray

«Nella società e nella cultura contemporanee, società postindustriale, cultura postmoderna […] la grande narrazione ha perso credibilità».
J.F. Lyotard

Parlando di quel non ordinario, poco capito e ancor meno blasonato talento del cinema statunitense che risponde al nome di James Gray, del suo cinema rigoroso, scolpito nella pietra, improntato a un’armonia e un rigore formali che paiono mutuare l’estetica del vecchio studio system, è facile cadere nella tentazione di annunciare la rinascita di uno stile classico, finalmente capace di restituire quella necessità di ordine, linearità, chiarezza e causalità propria della Hollywood d’oro di Hawks o Capra. Davanti alla compostezza formale e drammaturgica dei suoi film, può capitare di avere l’impressione di trovarsi a trattare con un cineasta d’altri tempi, in grado di coniugare la potenza trascinante di una narrazione forte (cioè apparentemente priva dei vuoti diegetici e le pause descrittive tipiche del modernismo) con la “diligenza” di una macchina da presa silenziosa, che compie il suo dovere semplicemente seguendo con occhio sempre lucido quel contenuto d’azione a cui si vuole solidamente ancorata l’attenzione dello spettatore. In realtà, l’opera di Gray gode di una complessità ben maggiore di quella accordatagli dalla limitante -e ad oggi fin troppo abusata- etichetta di “cinema classico”. Lo stesso regista ha recentemente ammesso di possedere solo “superficialmente un approccio classico” e di raccontare sempre “una storia chiara, però anche ambigua. Una forma di illusione sperimentale, se vogliamo”. In questo senso C’era una volta a New York si pone come un film di importanza capitale all’interno della sua carriera, quello che in modo più paradigmatico riesce a illuminare la natura oltre-classica del suo cinema, a definire i caratteri più pregnanti del suo classicismo critico (definizione che uso forse in modo improprio ma che, nell’ottica dell’opera di Gray, mi sembra possa calzare a pennello).

Il film – passato inosservato al Festival di Cannes del 2013 – fonde tutte le anime a cui il regista statunitense ha dato vita a partire da quel folgorante esordio costituito da Little Odessa, ponendosi come summa di una poetica dalle suggestioni molteplici: i toni del melodramma che in Two Lovers avevano raggiunto un apice di dolorosa e accecante bellezza si fondono – diventando inscindibili – con l’epica criminale propria di tutti gli altri suoi lavori, il tema familiare così tipico del suo cinema giunge a un vertice di vibrante autobiografismo (C’era una volta a New York nasce infatti da un ricordo familiare del cineasta: quello dei nonni che proprio negli anni ’20 si trasferirono negli Stati Uniti) e si connette a un’inquieta riflessione sul male, la sopraffazione e la violenza, ora più che mai intesi come elementi fondativi per la ricostruzione di una storia dell’America.

L’ultimo film di Gray racconta infatti l’approdo nella New York dei primi anni ’20 di due sorelle polacche cattoliche, decise a cominciare una nuova vita nella terra dei sogni. Subito però avviene una drastica separazione: la più giovane, malata di tubercolosi, viene trattenuta a Ellis Island. Ewa (un’ottima Marion Cotillard), rimasta sola, si affida a Bruno, un ruffiano showman che, giocando sull’opprimente bisogno di denaro della donna (dettato dalla necessità di mantenere le cure della sorella) la conduce inevitabilmente alla prostituzione e intanto s’innamora di lei. Per Ewa inizia così una dura lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile, privo di punti di riferimento concreti, all’interno del quale l’unico lampo di luce è costituito dall’inaspettato incontro con Orlando, cugino di Bruno e mago di professione, legato a una visione spensierata e ottimistica dell’esistenza.

Ora, Gray permea senza dubbio la suddetta struttura narrativa di un’aura classicheggiante, riscontrabile nella fotografia tendente al seppia, nella modulazione dosata dei tempi narrativi o nella ricostruzione storica rigorosa, eppure sostituisce a quella “sottolineatura dell’azione” che del classico era il criterio discriminante un’inquieta e prevalente attenzione alle psicologie devastate dei suoi protagonisti, fa subentrare alla lineare chiarezza della narrazione tradizionale una polivalenza di ossessioni che riflette l’ambigua inafferrabilità dei personaggi, dotati di una complessità inesauribile, estranea a quella classicità solitamente imperniata su caratteri solidi, tutti d’un pezzo e privi di zone d’ombra. I protagonisti di C’era una volta a New York celano al di sotto di un’apparente compostezza anfratti oscuri, esplosioni di violenza, di depravazione, di dolore, cicatrici insanabili frutto di un passato che ritorna di continuo ma di cui non ci è mai dato sapere, se non per frammenti. Si tratta di personaggi lontani dalla rassicurante univocità del classico (in cui il buono e il cattivo si fronteggiavano in modo antitetico), legati invece alla scissione, all’incertezza, a uno spaesamento esistenziale che ricorda piuttosto Antonioni, a una dolorosa mescolanza tra bene e male che rovescia continuamente i ruoli di sfruttatore e sfruttato, vittima e carnefice, obbligandoli a una perenne “co-dipendenza”.

C’era una volta a New York è dunque il lampante esempio di una classicità che continuamente rifugge da sé stessa, spostando progressivamente il suo vettore d’interesse dal racconto di una storia all’inafferrabile abisso delle personalità disgregate che la compongono. E inoltre, l’ultimo film di Gray è quello che in modo più consapevole si scontra con la tragica e postmoderna consapevolezza del “già detto”, tentando di applicare gli stilemi del classico a un’era strutturalmente non più compatibile con le sue esigenze di chiarezza e ordine, ormai incapace di dire qualcosa di nuovo. Quello di Gray è in fondo da sempre un classicismo critico che s’interroga sulle possibilità del “dire ancora” nell’era della fine delle grandi narrazioni, un classicismo costretto a rinnegarsi e utilizzare l’arma – postmoderna – della citazione per continuare a esistere.

Così, ad esempio, se nel bellissimo I padroni della notte la lingua parlata dal film era decisamente quella di Scorsese - Mean Streets più che Taxi Driver, Casinò più che Quei bravi ragazzi - e nel magnifico Two lovers il regista statunitense fondeva le suggestioni provenienti dall’Appartamento di Billy Wilder con quelle delle Notti bianche di Dostoevskij (e perché no dell’adattamento viscontiano), C’era una volta a New York tradisce in modo nettissimo un’influenza felliniana (d’altronde ammette lo stesso regista: “L’amore che ho per l’Italia credo si veda anche nei miei film. Il debito con La strada di Federico Fellini, in quest’ultima pellicola, è evidente, mentre nei precedenti c’è molto Luchino Visconti”). Impossibile non pensare a Cabiria, puttana in cerca di redenzione, e soprattutto alla Gelsomina de La strada, guardando la Ewa sola e disincantata di Gray. Impossibile non notare le assonanze tra i protagonisti maschili di C’era una volta a New York e quelli del sopracitato film di Fellini. Se il Bruno di Joaquin Phoenix, protettore violento e opportunista ma soprattutto piccolo e squallido imbonitore da bettola, richiama la figura di Zampanò, l’Orlando trasognato, fascinoso e capace di ricordare a Ewa che “ogni passerotto ha il diritto di essere felice” (in un richiamo palese alla celebre citazione felliniana “anche tu servi a qualcosa, con la tua testa di carciofo”) non può che costituirsi come un omaggio transnazionale al Matto di Richard Basehart.

Sarebbe facile enumerare tutte le altre numerose piccole citazioni all’universo felliniano contenute in C’era una volta a New York ma forse il gioco si ridurrebbe a un esercizio sterile e compilativo. Quel che emerge davvero anche a una lettura non eccessivamente approfondita è piuttosto la preminenza di una strategia citante (e dunque postmoderna) all’interno di un universo estetico che tende alla classicità. Ed è in questo senso che è possibile parlare di Gray come il portavoce di un “classicismo critico” che s’interroga sulle possibilità del “dire ancora” nell’era del già detto o -mutuando un’espressione usata da Vincenzo Buccheri per descrivere, in modi drasticamente diversi, il cinema di Clint Eastwood – un postmodern classic che tenta di applicare i motivi del classico al cinema contemporaneo ma si scontra con un mondo imperfetto, strutturalmente inadatto ad ospitarli, di fronte al quale è invece necessario adeguarsi ai tempi. E utilizzare appunto l’arma quanto mai contemporanea della citazione come figura e modo strutturante dell’intero testo.

Autore: Stefano Oddi
Pubblicato il 01/01/2014
USA 2013
Regia: James Gray
Durata: 120 minuti

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